Forum Italiano dei Comunisti

Teoria e prassi: un confronto per definire le basi dei comunisti italiani

Forum Italiano dei Comunisti – 04/07/2025

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Inviamo queste considerazioni in previsione di un nuovo confronto con il PCI che ci auguriamo possa contribuire ad aprire una nuova fase di sviluppo del movimento comunista in Italia

Esiste e qual è un’identità dei comunisti italiani che possa essere la base  della riorganizzazione? Oppure la ridefinizione di questo problema deve essere affidata al libero confronto di quei gruppi che  fino ad oggi  sono apparsi sulla scena, a cominciare da Rifondazione comunista, e che di fatto non hanno lasciato tracce e non hanno sciolto i nodi di una ripresa del movimento comunista?

Purtroppo dagli anni ’90 in poi la scelta che ha prevalso è la seconda e i suoi protagonisti non si sono preoccupati neppure di fare un bilancio di come sono andate le cose. Invece proprio da questo bilancio bisogna partire per indagare, aldilà dei demeriti di ciascuno, le ragioni della sconfitta.

Tre punti di indagine fondamentali si rendono perciò necessari :
● come si è configurato il rapporto storico tra comunisti e società italiana;
● gli effetti della crisi del movimento comunista e del PCI sulla società italiana;
● le modalità con cui si è tentato di far fronte alla catastrofe della liquidazione del partito dei  comunisti italiani.

Prima questione. La nascita e lo sviluppo del Partito comunista  ha avuto come retroterra, com’è ben noto, Lenin, la rivoluzione d’ottobre, l’Internazionale comunista, l’URSS di Stalin che sono stati gli elementi propulsivi senza i quali difficilmente si sarebbe sviluppato in Italia un partito dei comunisti come lo abbiamo conosciuto, cosa che ovviamente non riguarda solo il nostro paese. E’ stata la Terza Internazionale di Lenin a dare vita allo sviluppo mondiale del movimento comunista.

Questa affermazione sembra una banalità, ma invece è il caso di rifletterci perchè da lì è partita la forza e la credibilità di un progetto comunista, tant’è che negli anni ’20 del secolo scorso la parola d’ordine in Italia era “fare come la Russia”.
Ci sono stati dunque fatti storici precisi che hanno dato il via anche in Italia all’esperienza comunista ed è un fatto da tenere ben presente quando ci si propone di imitare  il 1921 di Livorno. Oggi, al contrario, siamo in una fase completamente diversa, l’URSS è crollata, il movimento comunista europeo è di fatto scomparso in Europa tanto a Est che a Ovest e non c’è perciò nessuna spinta propulsiva che possa aiutare i comunisti italiani a riconquistare le posizioni perdute.

Anzi, seconda questione, gli avvenimenti degli anni ’90 del secolo scorso pesano come un macigno sulla credibilità della parola comunista. E’ vero c’è la Cina, ma le modalità con cui questa si rapporta alle forze comuniste presenti nel mondo è assai diversa dai principi del 1919 su cui Lenin aveva fondato l’Internazionale comunista.

Non solo non c’è dunque una spinta simile a quella del 1921 che è stata la base di Livorno, ma  opera invece l’effetto opposto. Sulla parola comunista pesano ancora gli effetti del 1956, quando Kruscev denunciò Stalin definendolo un sanguinario dittatore, nonché delle fasi successive di una controrivoluzione che è passata come uno tsunami a Praga come a Berlino, a Bucarest e in tutto il resto del movimento comunista e dei paesi socialisti fino a Mosca dove ad opera di Eltsin è stata infine ammainata la bandiera rossa.

Terza questione. Ricostruire un’organizzazione comunista in Italia era ed è dunque un’impresa molto difficile in virtù anche delle vicende del PCI, che non riguardano solo lo scioglimento del partito, ma anche il voltafaccia dei suoi dirigenti, sindacalisti compresi, passati dal socialismo al liberalismo.

Bisogna dunque rendersi conto pienamente degli effetti che questi avvenimenti hanno avuto per la gente che li ha vissuti e anche per le generazioni successive.
In quegli anni, alcuni sopravvissuti hanno pensato che per riprendere il cammino interrotto bastasse agitare una bandiera rossa. Ma i simboli non hanno funzionato, né elettoralmente né organizzativamente. La grande ripresa non c’è stata, e di questo ovviamente non si possono accusare i lavoratori e quelli che erano stati i ceti di riferimento del PCI. Un ciclo storico si era concluso e bisognava quindi ragionarci sopra, a partire dal fatto che nel frattempo la parola comunista veniva declinata in modo ‘scarlatto’, più come effetto cromatico di propaganda ideologica che come prospettiva reale, e non era perciò in grado di suscitare quegli impulsi che avrebbero consentito di riprendere un percorso interrotto.
Questo spiega anche perchè, chiusa la vicenda del PCI e buttato il bambino con l’acqua sporca, si sia ripiegato su modelli ‘comunistici’ che di fatto rinnegavano il passato storico del movimento comunista reale ed erano incapaci di capire ciò che era accaduto sulla base di un’interpretazione materialista delle contraddizioni storiche. Il che non solo ha comportato una grande confusione teorica ma, spandendo una cortina fumogena sulla realtà, ha di fatto impedito di costruire una prospettiva strategica basata sui fatti e su punti teorici consolidati.
Abbiamo avuto dunque un comunismo ideologico, variamente interpretato, e una realtà che in mancanza di un partito comunista degno di questo nome si è andata manifestando con una spontaneità e una ingenuità politica che, pur mostrando un’opposizione al sistema si è rivelata incapace di andare oltre i limiti della protesta e di una contestazione basata sulla quotidianità.

Ma allora, se le cose sono andate in questo modo, come va impostata la questione della riorganizzazione dei comunisti italiani?

Sulla base delle considerazioni fatte finora non si può avere la pretesa di dare una risposta definitiva a questo interrogativo  perchè ci si rende conto delle difficoltà e quello che conta è andare invece in profondità nella discussione e cercare di formulare ipotesi che tengano conto il più possibile della realtà.

La prima riguarda naturalmente il partito e le condizioni della sua ripresa, per evitare che su questo si continui a pestare l’acqua nel mortaio. Ricostruire un partito dalle ceneri non è la stessa cosa che creare un gruppo politico organizzato che cerchi di realizzare un programma basato su questioni immediate. Queste vanno invece coniugate con la capacità di individuare un percorso strategico volto a realizzare una società diversa, una società socialista. Parliamo dunque di un partito attrezzato ad attraversare un percorso storico lungo e complesso, in cui la maturità dell’ipotesi sia legata alla concretezza delle questioni che si pongono all’ordine del giorno.

Lenin (Che fare?) sosteneva che senza teoria rivoluzionaria non c’è rivoluzione possibile. Ma in che consiste questa teoria? Dopo la degenerazione e il crollo del PCI in Italia si è perso il senso di che cosa significhi  realmente questa affermazione che noi riteniamo debba essere legata all’analisi concreta della situazione concreta da cui si ricava la prospettiva.

Nel clima culturale degli  anni ’90 del secolo scorso, in un’epoca di controrivolu­zione, la lezione che ci veniva dalla storia del movimento  comunista e dalle analisi teoriche legate alle esperienze rivoluzionarie risultava invece oscurata da un ecclettismo che coglieva solo superficialmente le questioni  sul tappeto. Così riemergeva di fatto la vecchia teoria socialdemocratica che sosteneva che il movimento è tutto e l’obiettivo strategico nulla. Su questo si è arenata una situazione che non ha sciolto le contraddizioni che si sono accumulate riguardo al partito, alla sua natura, alla sua funzione storica nella fase  attuale. Naturalmente qui si parla di un partito vero e non di una sua caricatura.

Per capire il che fare? è importante ritornare sulla storia del PCI e sui suoi insegnamenti. Non si tratta di romanticismo o di riferimenti archeologici a una grande storia ormai archiviata, ma di una lezione su come un partito  con caratte­ri­sti­che rivoluzionarie analizza i compiti  storici e impegna l’organizzazione a realizzarli.

Il primo passaggio del partito nato a Livorno fu di liberarsi del bordighismo, di quella cappa metafisica che ne costituiva la base teorica e impediva la ricerca e l’azione. La fase di riorganizzazione del partito attorno al gruppo dell’Ordine Nuovo, guidato da Antonio Gramsci, si concludeva con il congresso di Lione e con l’elaborazione delle tesi sulle forze motrici della rivoluzione italiana che diventavano la strategia del partito di cui si era avuta un’anticipazione nell’esperienza dell’Aventino del 1924, che aveva rafforzato il partito anche organizzativamente. Con l’arresto Gramsci alla fine del 1926 e l’entrata in vigore delle leggi speciali, al PCI e ai dirigenti rimasti sulla breccia rimaneva l’onere di affrontare la nuova situazione.

E’ importante sottolineare che la sorte del PCI si decise su due questioni che ne definirono anche l’impianto strategico successivo: la clandestinità e la politica del partito al momento della guerra mondiale e della crisi del fascismo. La clandestinità è stata il banco di prova del partito e della sua capacità di resistenza e questo ha portato alla formazione di un’organizzazione che al momento del passaggio dalla fase difensiva a quella offensiva dimostrò tutta la sua maturità politica e di azione. La Resistenza armata, la Repubblica e i principi della nuova Costituzione sono diventati fattori che hanno segnato il ruolo del PCI nella storia  d’Italia. Non solo, ma anche nel periodo successivo al 1947 e fino agli anni’60 del secolo scorso il PCI ha avuto una grande capacità di condurre una guerra di posizione contro il blocco clericale a guida americana fino a provocarne la crisi  con la sconfitta della ‘legge truffa’ del 1953.
Per i compagni  e le compagne che si accingono a portare avanti un progetto di riorganizzazione e di sviluppo di una forza comunista, il quadro di queste vicende storiche deve essere chiaro e chiara anche la rivendicazione del  patrimonio politico che ha portato a quei risultati. Dobbiamo  dichiararci  eredi e continuatori di quella storia. Ma per farlo non bastano le icone, ci vuole la capacità di ritrovare il filo rosso che collega il passato col presente.
Come avviene questa operazione? All’inizio abbiamo parlato di identità dei comunisti italiani e questo implica innanzitutto la capacità di misurarsi con i ‘comunismi’ e le altre correnti di pensiero che nella crisi si sono andate sviluppando. Senza condurre questa battaglia, che è anche battaglia di egemonia, si rimane inchiodati  alla babele della cultura movimentista ed ecclettica che contraddistingue il panorama dei gruppi e gruppetti che si muovono sulla scena, nella quale, per procedere correttamente, bisogna invece saper distinguere la realtà oggettiva dalle deformazioni  romantiche e soggettive della lotta politica e di classe.
Per comprendere il presente dobbiamo prendere atto che la fine del PCI ha ridefinito il quadro delle forze politiche che operano nel nostro paese. Ebbene, se andiamo a vedere la base di consenso di queste forze ci accorgiamo che ruotano tutte attorno a partiti che coi comunisti hanno poco a che fare. Esiste una destra forte che rappresenta circa la metà degli elettori, una forza liberal-democratica come il PD, un partito radical-istituzionale come i 5 Stelle e un’Alleanza Verdi-Sinistra che sta dentro il progetto del centro-sinistra. Il fatto che quasi la metà dell’elettorato non vota è un dato significativo che dimostra disinteresse verso queste istituzioni, ma si limita a un rifiuto passivo. In questo contesto, la cosiddetta sinistra radicale dimostra la sua sostanziale non rappresentatività e rimane una realtà circoscritta a gruppi di avanguardisti senza un seguito effettivo.
Qual è allora la conclusione che se ne deve trarre?
Come Gramsci ci insegna, bisogna ritornare a un’analisi della società italiana per capire il contesto in cui un’organizzazione comunista deve muoversi. Dopo la sconfitta degli anni ’20, per approfondirne le ragioni Gramsci si impegnò infatti, non a caso, in un’analisi di questo tipo. Anche noi, nel momento in cui parliamo di ricostruzione di un’organizzazione che non sia ossificazione di una ideologia, abbiamo l’obbligo di impegnarci in questa direzione.
In sostanza possiamo dire che i nodi da sciogliere sono questi:
● qual è il terreno di aggregazione e di formazione del partito;
● come questo partito riesce a collegarsi con la società;
● quali sono le caratteristiche del processo di trasformazione e su quale progetto strategico il partito dei comunisti dovrebbe espletare la sua funzione.

La prima questione, il terreno di aggregazione e di formazione del partito. Fino ad oggi, dopo la dissoluzione del PCI, il movimento di opposizione ha avuto la caratteristica di un aggregato di gruppi che hanno espresso una radicalizzazione minoritaria che, appunto per queste caratteristiche, non è riuscita a mobilitare forze reali e portarle al conflitto con il sistema esistente. I comunisti devono dunque uscire da questa logica e riposizionare la politica del partito nella dialettica reale che contraddistingue la società italiana oggi sul terreno politico e sociale.

Per quanto riguarda il terreno politico la questione principale è misurarsi con le forze in campo ed esprimere una tattica e una proposta di alternativa che sia in grado, tenendo conto delle caratteristiche del sistema, di condizionare i processi politici.
Che cosa significa questa affermazione? Noi siamo abituati, per schematismo ideologico, a vedere le cose in modo primitivo: da una parte il sistema capitalistico e dall’altra le forze antagoniste che dovrebbero contrastarlo. Ma questa non è la fase in cui la contraddizione assume un aspetto risolutivo. Se è vero infatti che senza lo sviluppo delle contraddizioni reali e di classe non c’è cambiamento, in una società complessa come la nostra bisogna anche capire come si sviluppa la dinamica del conflitto. Per essere più precisi: come si articola questo conflitto, in cui necessariamente vengono coinvolte le forze parlamentari, le istituzioni, i partiti politici, le rappresentanze sociali. Su questo purtroppo siamo rimasti agli slogans e invece bisogna capire che senza una strategia complessa che investa tutto l’arco dei soggetti non si riesce a mettere in difficoltà l’avversario e vincere. Dobbiamo renderci conto che la nostra è ancora la caratteristica guerra di posizione, per la quale l’esperienza del PCI  del dopoguerra risulta preziosa. Ma tra quella esperienza e la situazione attuale c’è una differenza sostanziale. Allora la questione era lo scontro tra il blocco clericale a guida americana e un PCI forte che non poteva però ancora sviluppare una guerra di movimento. Oggi il blocco di potere si esprime in maniera articolata, tra centro e destra,  e l’opposizione  si manifesta in una sinistra democratica che nella nostra strategia dobbiamo considerare potenziale alleata.
In sostanza quindi, data la situazione odierna, lo schema strategico dei comunisti e l’azione del partito, ferma restando la loro autonomia e dati soprattutto i rapporti di forza che sono rovesciati  rispetto ai tempi del PCI, dovrebbero essere concentrati sulla funzione propulsiva dell’intero arco delle forze di opposizione che si esprimono nel contesto italiano. Per questo l’obiettivo dovrebbe materializzarsi nella costruzione di un fronte costituzionale seppure variamente articolato.
Su come costruire questo fronte sul piano elettorale e della crescita di un movimento unitario che lo sostenga è d’obbligo aprire una discussione seria, perchè è un banco di prova per i comunisti, come dopo il 1926 e il 1944, cioè i momenti storici che hanno  caratterizzato il PCI di Gramsci e di Togliatti e si ripropongono come riferimento per capire le scelte che vanno fatte oggi.
Se questi sono gli elementi generali dentro cui, in questa fase, i comunisti devono muoversi, è bene anche puntualizzare alcune questioni che attengono specifica­mente alle caratteristiche del partito dei comunisti.
Questo partito non può nascere né su questioni semplicemente tattiche, cioè di fase, nè su principi che non siano legati a un processo reale di trasformazione in una prospettiva socialista. Per queste ragioni il partito dei comunisti si organizza non solo attorno a punti fermi che lo distinguono rispetto ad altre formazioni politiche, ma anche su una dinamica nelle relazioni interne relative alla disciplina, al metodo di lavoro, alla capacità di tenuta nello scontro col sistema che si intende  combattere.

Certamente la situazione è  profondamente cambiata dal fatidico 1919 quando fu fondata l’Internazionale comunista. Di quella esperienza rimangono però non solo una storia grandiosa che ha sfidato il sistema capitalistico, ma anche nuovi equilibri internazionali di cui la Cina è il perno. Rimangono anche, per un partito di comunisti, la lezione di Lenin sul Che fare? e l’esperienza di un movimento comunista, di cui quello italiano è stato parte importante, che per noi deve essere un riferimento prezioso nel momento in cui ci accingiamo a riprendere la marcia.

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