[SinistraInRete] Roger Waters: Roger Waters, al cuore

Rassegna – 30/09/2025

 

 

Roger Waters: Roger Waters, al cuore

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Roger Waters, al cuore

Fabrizio Rostelli intervista Roger Waters

Intervista esclusiva con Il musicista inglese, storico componente dei Pink Floyd, interviene sulla Palestina, sulla Flotilla e sulla fase politica che stiamo attraversando

roger waters conferenza stampa roma copyright photo fabrizio rostelli ritoccataIl suo ultimo tour «This is not a drill» è forse la sintesi più alta e senza compromessi della sua creatività artistica e del suo impegno politico. Un concerto in cui l’estasi musicale accompagna il bombardamento visivo di immagini di denuncia sociale e di resistenza al capitalismo e al fascismo. «Se siete fra quelli che amano i Pink Floyd, ma non sopportano le prese di posizione politiche di Roger, potete andarvene a fanculo al bar», questo l’annuncio a inizio concerto. Roger Waters ha la libertà di mirare al cuore, senza fronzoli. Da anni in prima fila per il sostegno al popolo palestinese, ha portato la guerra nei suoi show mostrando il video «collateral murder» nel mondo. Waters, da intellettuale, ha scelto di esporsi e prendere posizione. Dall’impegno nella campagna per la liberazione di Assange, al supporto delle comunità native contro l’oleodotto in Dakota, fino all’appello per la riapertura dell’ospedale calabrese di Cariati raccolto nel film sulla sanità pubblica C’era una volta in Italia di Greco e Melchiorre.

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La Global Sumud Flotilla ha iniziato la navigazione verso Gaza per consegnare aiuti umanitari. Diverse barche sono già state attaccate da droni probabilmente israeliani. Cosa accadrà?

È molto improbabile che una qualsiasi delle imbarcazioni della flotilla riesca a consegnare cibo, latte per neonati e medicinali a Gaza, perché gli israeliani le intercetteranno tutte.

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Gianandrea Gaiani: Le contraddizioni di Trump azzoppano la NATO per annichilire L’Europa

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Le contraddizioni di Trump azzoppano la NATO per annichilire L’Europa

di Gianandrea Gaiani

Russian SU 27 Flanker
with RAF Typhoon MOD 45157730.jpgDonald Trump ci ha ormai abituato a dichiarazioni roboanti spesso smentite da successive dichiarazioni, ad affermazioni contraddittorie o sopra le righe ma anche se la chiave di lettura che ci offre oggi Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano parlando di “catalogo completo di sindromi psichiatriche” non sembra priva di riscontri oggettivi, per gli europei sarebbe ingenuo ritenere che la Casa Bianca non persegua, forse in modo volutamente confuso, obiettivi ben precisi e tutti a nostro danno.

Negli ultimi giorni hanno destato sorpresa ed entusiasmo (quest’ultimo giustificato forse a Kiev, molto meno nelle capitali europee) le dichiarazioni circa le prospettive del conflitto in Ucraina rilasciate da Trump il 23 settembre, che sembrano imprimere un deciso cambio di rotta (o forse solo narrazione), dopo l’incontro con Volodymyr Zelensky a New York.

 

Abbattete gli aerei russi

Nel sostenere che le nazioni della NATO dovrebbero “abbattere gli aerei russi” se violano il loro spazio aereo, Trump sembra definire l’Alleanza Atlantica come una organizzazione estranea o comunque diversa dagli Stati Uniti che della NATO sono (o erano) azionista di maggioranza.

A conferma di questo approccio nei confronti degli alleati europei, che appare basato sul concetto “voi siete la NATO, noi gli Stati Uniti”, Trump ha fornito una risposta sibillina ma al tempo stesso chiarificatrice alla domanda se gli Stati Uniti aiuterebbero in armi gli alleati europei contro la Russia: “dipende dalle circostanze”.

In ogni caso la demenziale macchina propagandistica che anche in Italia punta a riscaldare la guerra fredda con la Russia utilizzando le supposte violazioni dello spazio aereo NATO si è subito rimessa in moto, forte dell’invito di Trump ad andare (noi, la NATO) in guerra contro la Russia contando sul fatto che loro (gli USA) ci venderanno le armi.

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comidad: La politica degli interessi e la politica delle gerarchie

La politica degli interessi e la politica delle gerarchie

di comidad

L’accordo di mutua difesa firmato da Arabia Saudita e Pakistan lo scorso 17 settembre ha precedenti storici abbastanza noti, dato che è stata proprio la petro-monarchia di Riad a finanziare il programma nucleare militare pakistano, ufficializzato nel 1998. D’altra parte occorre considerare la tempistica dell’annuncio di tale accordo, che arriva pochi giorni dopo l’attacco israeliano al Qatar, sebbene la petro-monarchia di Doha ospiti una grande base militare degli Stati Uniti. In altre parole, l’inaffidabilità degli USA ha costretto il regime saudita a diversificare i “fornitori di sicurezza” ed a favorire l’ingresso di un nuovo soggetto nell’area medio-orientale; il Pakistan, appunto. Il regime di Islamabad ha ufficialmente buoni rapporti con gli USA, quindi il suo ingresso nell’area medio-orientale non assume il carattere di una sfida dichiarata al presunto “ordine” statunitense, sebbene oggettivamente rappresenti un segnale del suo crescente discredito.

Molte analisi geo-strategiche si sono concentrate sulle conseguenze negative che un tale accordo potrebbe comportare per il principale avversario del Pakistan, cioè l’India. Sembra però che in questo ambito non si sia detto finora molto di concreto, specialmente per ciò che riguarda le sorti del corridoio infrastrutturale e commerciale che dovrebbe collegare l’India al Medio Oriente. Il porto israeliano di Haifa avrebbe dovuto essere tra le infrastrutture essenziali per rendere operativo il corridoio con l’India; è stato però lo stesso Israele a bruciare questa prospettiva attaccando l’Iran, i cui missili hanno dimostrato che Haifa è troppo vulnerabile e insicura. La stampa sionista finge che nulla sia cambiato per Haifa, ma intanto il regime israeliano continua a minacciare l’Iran, scoraggiando gli investimenti in un’infrastruttura dal destino così incerto.

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Me-Ti: La gramigna e il campo coltivato. Il 22 settembre tra spontaneità e organizzazione

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La gramigna e il campo coltivato. Il 22 settembre tra spontaneità e organizzazione

di Me-Ti*

Sulla giornata di ieri 22 settembre, come crediamo un po’ tutte le persone che hanno partecipato allo sciopero e alle manifestazioni di piazza per la Palestina e lo stop al genocidio, abbiamo letto tanti commenti sui social, sui giornali, etc. Vorremmo dire due parole su un argomento che ci sembra tanto importante quanto trascurato: il modo in cui questa giornata è stata costruita, in cui è cresciuta e germogliata.

Perché a ben vedere è proprio di questa costruzione che nessuno parla e la rappresentazione ricorrente che ritroviamo, anche da parte di voci insospettabili perché esperte in dinamiche politiche e di movimento, è che stante una certa sensibilità – che si sarebbe prodotta spontaneamente a furia di assistere alle brutalità e alle ingiustizie inflitte al popolo palestinese, a furia di assistere al primo genocidio in diretta mondiale – le mobilitazioni esplodono, le piazze traboccano di gente, i cortei vanno a bloccare tutto, i cuori si infiammano e i potenti si inginocchiano (ma magari!).

Leggendo Il Manifesto ma anche riviste autorevoli e vicine come Jacobin Italia ci sembra che la narrazione prevalente sia quella di un movimento che nasce e che cresce praticamente in autonomia. L’USB e gli altri soggetti organizzatori sono nominati a stento e quasi per errore, seguendo la retorica secondo cui lo sciopero lo hanno chiamato loro, sì, ma chiunque si fosse presentato a quell’“appuntamento con la Storia” avrebbe ottenuto il medesimo risultato.

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Fabrizio Marchi: Non ci caschiamo

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Non ci caschiamo

di Fabrizio Marchi

A Gaza (ma anche in Cisgiordania) proseguono senza sosta il genocidio e la pulizia etnica del popolo palestinese da parte dello stato (e non solo dell’attuale governo) terrorista, razzista e nazifascista israeliano ma il sistema mediatico e il governo Meloni fingono di scandalizzarsi per qualche tafferuglio e qualche vetrina infranta da parte dei soliti (noti) scemi durante una manifestazione. Circa 500.000 persone sono scese in piazza in tutto il paese in 81 città per protestare vigorosamente ma pacificamente contro questa spaventosa carneficina, ma i TG e i vari talk show non fanno altro che parlare di queste scaramucce (sia detto tra parentesi, quanto successo ieri a Milano avviene nei pressi degli stadi una domenica sì e l’altra pure ma non solleva certo un simile can can mediatico…) fra alcuni dimostranti e la polizia.

Ora, se avessero tentato di assalire il consolato israeliano (cioè quello di uno stato razzista, nazista e genocida) non avrei avuto molto da ridire, devo essere onesto. Personalmente penso che non è tirando sassi e bottiglie che si risolvono le questioni, ovviamente, perché la politica è una vicenda decisamente più complessa. Però se non vogliamo essere ipocriti oppure ragionare da anime belle (che è comunque meglio che essere ipocriti) sappiamo perfettamente che esiste violenza e violenza. La violenza agita da parte di chi, come oggi i palestinesi, combatte contro un regime oppressivo o contro uno stato imperialista e razzista che occupa la propria terra e il proprio popolo non può essere messa sullo stesso piano della violenza agita da quel regime o da quello stato imperialista e razzista. Gli esempi potrebbero ovviamente moltiplicarsi, ma credo non ci sia bisogno di aggiungerne altri.

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Ennio Abate: Speranza e violenza

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Speranza e violenza

di Ennio Abate

Che il mondo potesse essere salvato dai ragazzini si è dimostrato impossibile. Che dopo il ‘68 potesse nascere in Italia un partito rivoluzionario come quello di Lenin è stata l’illusione delle generazioni che hanno fatto politica negli anni Settanta del Novecento. Che la riproposta della lunga marcia nelle istituzioni contenuta ne Il Sessantotto e noi di Luperini e Corlito sia sbagliata è la mia opinione che ho già argomentato.

Qui controbatto per punti alle obiezioni che Corlito ha mosso al mio Compianto sul Sessantotto https://www.poliscritture.it/2025/05/26/compianto-sul-sessantotto/

 

1. Affermi: «Come a dire che la violenza del potere borghese, che non abbiamo mai sottovalutato tanto meno ora in questa epoca di guerra, richiede inevitabilmente l’uso di un altrettanto potente uso della violenza rivoluzionaria.». Non esito a rispondere di sì. Dove si è vista mai una rivoluzione che non abbia dovuto contrapporre una violenza capace di spezzare la violenza dei dominatori?

 

2. «Non è un caso che, pur nella sua precisione esegetica, Abate non citi mai direttamente la questione cilena, che è invece centrale nelle nostre conclusioni».

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Fulvio Grimaldi: Occidente: suicidio assistito

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Occidente: suicidio assistito

di Fulvio Grimaldi

https://www.youtube.com/watch?v=zF5gEwp6YKs

https://youtu.be/zF5gEwp6YKs

Cos’è che ci ha fatto sapere Mattarella nel suo quotidiano mattinale con cui, dal monte Quirinale, che vale il Sinai di Mosè, ti erudisce il pupo? Pupi che saremmo noi, popolo italiano imberbe e perennemente plaudente a lui, come al consimile andreottiano Pippo Baudo e al dio del made in Italy, Giorgio Armani, assurto a eroe della nazione quando fu inquisito per sfruttamento di poveracci. Il che ci spiega perché da Meloni, giù giù fino a Nordio, la magistratura delenda est.

Devono essere stati ispirati, i nostri governanti UE, guidati dall’avanguardia dei Volenterosi, da quella setta di fanatici del culto della morte (propria e altrui) che in Medioriente è riuscita nel genocidio di maggiore successo della storia umana. Genocidio che fisiologicamente avrà un coronamento affine a quella della “Setta del Popolo” in Guyana, ricordate quel suicidio collettivo di madri, padri, nonni e bambini? Il celebrante era Jim Jones. Oggi si chiama Bibi Netaniayhu.

Ma Ursula von der Leyen, che a partire dal modello Ucraina, confortata da famuli come Merz, Starmer, Macron, Meloni, va approntando un simile crepuscolo degli dei anche per l’Europa, E per i suoi “valori”. A proposito dei quali ci si impone un breve excursus verso il monte del Mosè qurinalizio. Irrinunciabile la promozione di uno dei suoi espettorati più recenti: quello dell’Europa che, in virtù dei suoi valori non ha mai fatto guerre.

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Giorgio Agamben: Moneta e memoria

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Moneta e memoria

di Giorgio Agamben

Moneta, il termine latino dal quale il nostro deriva, viene da moneo, «ricordare, pensare» ed era in origine la traduzione del greco Mnemosyne, che significa «memoria». Moneta divenne così a Roma il nome del tempio in cui si celebrava la dea memoria e si coniava la moneta. È a partire da questo nesso etimologico fra la moneta e la memoria che si dovrebbe guardare al riaccendersi oggi delle discussioni sull’abolizione della moneta unica europea e del recupero di ogni paese della propria moneta tradizionale. Sotto l’urgente questione «monetaria» agisce una non meno urgente questione di memoria, cioè nulla di meno che la riscoperta della memoria propria di ciascuno dei paesi europei che, abdicando alla sovranità sulla propria moneta, hanno senza accorgersene in qualche modo abrogato anche il proprio patrimonio di ricordi. Se la moneta è innanzitutto il luogo della memoria, se nella moneta, in quanto può pagare per tutto e stare al posto di tutto, ne va per il singolo e per la collettività del ricordo del passato e dei morti, non sorprende allora che nella rottura del rapporto fra passato e presente che definisce il nostro tempo emerga con inaggirabile urgenza il problema monetario.

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Aligi Taschera: Che cosa si può fare?

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Che cosa si può fare?

di Aligi Taschera

71V7hX8g1uL. UF10001000 QL80 .jpgGià nel 2013 il generale Fabio Mini scriveva:

“Il fatto è che oggi stiamo vivendo, a livello globale e per la prima volta nella storia umana, il ‘tempo della guerra’: la stagione in cui la guerra, come atteggiamento mentale e in tutte le sue forme visibili ed invisibili, sembra rappresentare la sola risposta ai problemi di relazione tra gli uomini”.

E poi proseguiva:

“Senza un ritorno al primato della politica per il bene pubblico, al rispetto reciproco – anche tra avversari – e all’eccezionalità della guerra, in futuro come oggi ci saranno guerre senza limiti tra diverse culture della guerra … guerre fatte in ogni zona del pianeta e in ogni luogo d’elezione…”

Parole profetiche.

E ora? Come siamo messi? Molto male, direi.

Sulla sponda est del “nostro” mediterraneo una guerra che dura almeno da 57 anni (se la si vuol fare decorrere dall’occupazione israeliana della Cisgiordania) o da 77 (se la si vuol far decorrere dalla proclamazione unilaterale dello stato di Israele del 1948) è da due anni (o più esattamente un anno e 11 mesi) degenerata in una strage quotidiana (che la si voglia chiamare genocidio o no il fatto resta) di proporzioni mostruose.

Questa strage quotidiana mostra senza veli l’estrema degradazione morale del cosiddetto “occidente” in toto. Una degradazione morale senza precedenti. Perché la quotidiana strage genocidaria degli ebrei compiuta dalla Germania nazista non era messa in mostra: era nascosta. Non solo, ma avveniva nel corso di una guerra mondiale, che vedeva mobilitate contro la Germania nazista e i suoi alleati (Italia e Giappone) le più importanti potenze: Gran Bretagna, Stati Uniti d’America, Russia (allora denominata Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche) e Cina.

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Cesare Alemanni: La Cina contro Nvidia

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La Cina contro Nvidia

di Cesare Alemanni

Il 17 settembre il governo cinese ha ordinato alle principali aziende tecnologiche del paese di interrompere l’acquisto e l’uso di chip Nvidia, inclusi l’RTX Pro 6000D e l’H20, due chip progettati appositamente per aggirare le restrizioni imposte dal governo americano all’export di hardware USA avanzato in Cina.

Nei giorni immediatamente precedenti, la Cina aveva avviato un’indagine antitrust in merito all’acquisizione di Mellanox: un’azienda israelo-americana, specializzata nell’interconnessione di rete ad alte prestazioni, comprata da Nvidia nel 2020 per oltre 7 miliardi di dollari. L’indagine antitrust segna l’ingresso in una nuova fase della “guerra dei chip”, che ora si estende non solo ai singoli processori ma a tutti i componenti delle infrastrutture di calcolo critiche.

La posizione cinese ha ovviamente fatto molto rumore, con il titolo di Nvidia che ha immediatamente subito una flessione e il CEO dell’azienda – Jensen Huang – che si è detto estremamente deluso (“disappointed”) dalla decisione di Pechino.

Dal canto suo, come spesso accade, subito dopo aver acceso il fuoco il governo cinese ha indossato i panni del pompiere. Il giorno successivo all’annuncio del veto, il ministero degli Esteri ha assicurato che, in ogni caso, la Cina “intende mantenere il dialogo con tutte le parti”, e non intende “danneggiare le catene globali del valore della micro-elettronica”. Frasi che paiono messaggi in codice inviati ai centri di potere di Washington, in passato accusati proprio di provocare danni sistemici.

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Francesco Dall’Aglio: C’è stato un “cambiamento” di Trump sul conflitto in Ucraina?

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C’è stato un “cambiamento” di Trump sul conflitto in Ucraina?

di Francesco Dall’Aglio

Poco fa Vance ha riferito che quello di Trump non è un cambiamento di posizione sul conflitto, ma che è solo “molto impaziente” e vuole che la guerra finisca perché danneggia la Russia, e se non negozieranno la pace sarà molto male per il paese. Da Mosca, immagino, ringraziano per l’interessamento. Che non sia un cambio di posizione è abbastanza chiaro, ad ogni modo. Lo dicono fonti ucraine (Tatarigami ad esempio, che pubblica analisi interessanti anche se a volte sbilanciate), e varia altra gente – Goncharenko, Zheleznyak e Fesenko, ad esempio (link 1), che giustamente dicono che non gli pare di ravvisare alcun cambio di politica. Anche qualche europeo, rigorosamente in anonimato, ha detto che gli pare che, sostanzialmente, Trump abbia salutato tutti, e perfino Nawrocki non sembrava particolarmente entusiasta (link 2). Come dar loro torto, in effetti: nessuna ulteriore sanzione, nessuna promessa reale di aiuto, solo l’offerta, diciamo così, di vendere armi all’Europa e una pacca sulla spalla.

Va bene, uno dice, è già qualcosa la vendita delle armi, loro ce le mettono e gli europei pagheranno, e l’Ucraina avrà tutto quello di cui ha bisogno (tranne il personale, quello ovviamente è un altro discorso). Le cose, come sempre, sono un po’ più complicate. Qualche giorno fa The Atlantic (link 3, se è il vostro primo articolo del mese lo potete leggere) aveva, discretamente, suonato l’allarme: gli USA stanno “quietamente” mettendo in pausa la consegna di sistemi d’arma per gli alleati.

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Fulvio Grimaldi: “La criminalizzazione della resistenza è l’arma degli oppressori”

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“La criminalizzazione della resistenza è l’arma degli oppressori”

Grimaldi su Gaza, proteste e crisi dell’informazione occidentale

Francesco Mastrobattista intervista Fulvio Grimaldi

Fulvio Grimaldi, classe 1934, giornalista di lungo corso, inviato di guerra per la RAI e la BBC e autore indipendente. Negli anni ha scritto per storiche testate militanti di sinistra e collaborato con importanti giornali come La Repubblica, L’Espresso e Il Manifesto. Grimaldi è da sempre famoso per le sue posizioni filo-palestinesi riguardo al conflitto arabo-israeliano. È noto soprattutto per aver seguito da vicino il conflitto israelo-palestinese e aver prodotto numerosi reportage e documentari, frutto di esperienze sul campo a Gaza, in Cisgiordania e Libano. Non un giornalista “neutrale” nel senso classico, ma una figura da sempre vicina a cause anti-imperialiste e anti-NATO. Francesco Mastrobattista ha deciso di intervistarlo in esclusiva per il Corriere delle città con qualche domanda piccante in merito agli ultimi avvenimenti sullo scenario italiano e mondiale.

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F.M: Ciao Fulvio. Innanzitutto grazie per la disponibilità. Dalla Capitale è partito un grido di battaglia che si è esteso in tutta la nazione. Milano e Torino, in particolare, sono state teatro di guerra tra manifestanti pro-Palestina e forze dell’ordine. Come mai improvvisamente una buona parte dell’opinione pubblica prende questa posizione netta? Perché anche una parte del mainstream cambia narrazione rispetto a mesi fa?

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Fabrizio Poggi: Chi sarà a cadere per primo nella Terza guerra mondiale ibrida?

lantidiplomatico

Chi sarà a cadere per primo nella Terza guerra mondiale ibrida?

di Fabrizio Poggi

Droni à gogo, si sarebbe detto un tempo. Chi più ne ha, più ne metta. Sembra la moda del momento e solamente i più indolenti si lasciano sfuggire l’occasione di “avvistamenti”, “sconfinamenti” e, alla fin fine, “abbattimenti”… Ieri è stata la volta di Danimarca e Norvegia, in una spinta “verso ovest” che non lascia dubbi sulla matrice di tale pericolosa escalation provocata da quella che è oggi la capitale più ostinata del cosiddetto “asse del male”.

Così pochi dubbi, che La Repubblica non perde nemmeno tempo a dire qualcosa che non siano le solite veline di Bruxelles e scrive direttamente che «Secondo il presidente ucraino Zelensky, la matrice è chiaramente russa: “Se non ci sarà una risposta decisa da parte degli alleati – sia Stati che istituzioni – alle provocazioni, la Russia continuerà a perpetrare tali violazioni”», salvo comunque, bontà sua, aggiungere che «Al momento comunque non ci sono conferme ufficiali su un effettivo coinvolgimento di Mosca, né che gli episodi di Oslo e Copenaghen siano collegati».

Ma intanto il vate di Kiev ha oracolato e, di rinforzo, si cita la premier danese Mette Frederiksen, secondo la quale «Non escludiamo alcuna ipotesi riguardo a chi ci sia dietro. È chiaro che questo è in linea con gli sviluppi che abbiamo potuto osservare di recente con altri attacchi con droni, violazioni dello spazio aereo e attacchi hacker agli aeroporti europei». Chiaro, no?

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Domenico Moro: La stanza 49, un noir che parla dell’Italia di oggi

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La stanza 49, un noir che parla dell’Italia di oggi

di Domenico Moro

Nel 2022 avevo recensito Gli immorali, il romanzo d’esordio di un nuovo autore del panorama noir italiano, Fabio Nobile. A distanza di tre anni Nobile ci regala il suo secondo romanzo, La stanza 49 (Edizioni Efesto, euro 15).

Si tratta di una conferma della capacità di questo autore di utilizzare questa forma letteraria, il noir, non solo per farci passare qualche ora piacevole immersi in una lettura avvincente, ma anche per descrivere in modo acuto la società italiana odierna. Infatti, come dicevamo già in riferimento a Gli immorali, si tratta di un romanzo generazionale, che parla di una generazione, quella che era giovane negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, che oggi, nella maturità, si trova a fare i conti con una realtà molto diversa da quella che si aspettava.

Il protagonista della Stanza 49, come già in Gli immorali, è un “perdente”, Flavio Incerti, che fin dal nome rivela una fragilità nei confronti di una realtà che lo vede insoddisfatto e deluso. Incerti è un giornalista che sogna di fare quello scoop che lo porterebbe nell’olimpo del giornalismo, ma che è incastrato in un lavoro banale di rimasticatura di notizie altrui. L’insoddisfazione professionale è accompagnata da quella negli affetti, in particolare dal rapporto con la moglie Marina, manager affermata e di successo, che lo giudica un fallito e un incapace.

Per sfuggire a questa realtà, Flavio si invaghisce di una donna incontrata occasionalmente a una festa, Alice Diafani, intessendo con lei un rapporto virtuale fatto di messaggi via telefono, che diventa via via sempre più intimo.

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