Rassegna – 04/10/2025

Rocco Ronchi: Roberto Esposito nelle tenebre del fascismo
Roberto Esposito nelle tenebre del fascismo
di Rocco Ronchi
La necessità di una riflessione filosofica sul fascismo si impone quando il fascismo diventa una minaccia reale. Per quanto indiscutibili siano tutte le differenze tra la situazione presente e quella vissuta negli anni venti e trenta del secolo scorso, la parola “fascismo” affiora inevitabilmente alla mente quando si vuole inquadrare il fenomeno populista-sovranista. E, con essa, il suo opposto, “antifascismo”, anche questo un termine abusato, gravato da una retorica che ne compromette sul nascere l’efficacia, e, tuttavia, anch’esso, inevadibile, quasi necessario. In attesa di nuovi e più precisi concetti scontiamo, insomma, la limitatezza del nostro vocabolario. Dobbiamo prendere a prestito vecchi termini per eventi nuovi, ma se questo è possibile è perché tra il vecchio e il nuovo vi è, di fatto, una continuità reale che è proprio quanto oggi ci inquieta e ci interpella.
Per queste ragioni il saggio di Roberto Esposito, Il Fascismo e noi (Einaudi, 2025), è un libro importante fin dal suo titolo programmatico: non chiede, infatti, soltanto che cosa sia stato il fascismo storico, ma chiede di “noi” rispetto ad esso, chiede “chi” siamo “noi” che lo abbiamo stigmatizzato come un orrore, ma che, oggi come allora, di fronte a un orrore solo somigliante (perché la via dell’”analogia”, secondo Esposito, è impercorribile) proviamo la stessa sensazione di impotenza, come se fossimo alle prese con una macchina che funziona in modo implacabile, una macchina cieca al senso e votata soltanto alla sua operatività illimitata. Gaza non è un campo di sterminio nazista ma gli somiglia, i militari dell’Idf non sono le SS ma gli somigliano, gli autocrati che impazzano ovunque non sono i duci fascisti ma gli somigliano e “noi” non siamo i nostri padri o nonni, i quali, nel migliore dei casi, hanno assistito come testimoni sgomenti all’avvento dell’orrore, ma gli somigliamo. E la somiglianza diventa quasi una relazione di identità se si considera il desiderio irrefrenabile di sottomissione e di vendetta (sui più deboli) che attraversa quel “popolo” sulla cui incondizionata sovranità tutti i populismi scommettono.
Enrico Grazzini: La UE guerrafondaia e MicroMega
La UE guerrafondaia e MicroMega
di Enrico Grazzini
L’Unione Europea e la Nato si armano contro la Russia per nascondere i loro fallimenti
Perché l’Europa corre verso il riarmo? La risposta della Nato e dell’Unione Europea, e anche purtroppo di gran parte della sinistra storica, è questa: l’Europa deve riarmarsi per potere contrastare la Russia che ha invaso l’Ucraina e che vuole attaccare tutta l’Europa. Ma il tiranno Vladimir Putin è veramente l’unico colpevole dell’attacco all’Ucraina? La Nato è una colombella innocente? Washington in Ucraina ha difeso i suoi interessi imperiali oppure la libertà degli ucraini? La Nato è davvero un’organizzazione che difende la democrazia? O è invece una macchina militare che non ha avuto scrupoli nell’attaccare illegalmente la Serbia, storicamente uno Stato amico della Russia, e di creare con le sue bombe il Kosovo, ovvero un nuovo Stato dentro l’Europa dove, tra l’altro, ha insediato una sua base militare? Se la Nato è un’organizzazione militare che difende l’Europa, perché ha attaccato l’Afghanistan, l’Iraq, la Siria, la Libia provocando decine di migliaia di morti innocenti, per lasciare poi terra bruciata? Perché la Nato, guidata dall’ex presidente americano Joe Biden, ha promesso all’Ucraina di poterne farne parte se i governi ucraini e gli oligarchi di Kiev erano da tutti considerati corrotti e fuori dalla democrazia? Putin è davvero così pazzo da scontrarsi con la Nato per invadere anche tutta l’Europa? Infine: riarmarsi è la risposta giusta per dare più sicurezza all’Europa? Solamente se si risponde a queste domande si riesce a comprendere quali potrebbero essere realmente le difficili vie della pace.
In tutta Europa si diffonde una cagnara ridicola, ma pericolosissima, su come i paesi della Nato e dell’Unione Europea dovrebbero difendersi dall’imminente invasione russa e su come prepararsi alla guerra con la Russia.
Maurizio Guerri: Guardare il genocidio e non vederlo
Guardare il genocidio e non vederlo
di Maurizio Guerri
Le immagini della distruzione di Gaza sono la cifra del nostro tempo, ma «allo stesso tempo» provengono da un passato composito e illusoriamente archiviato, l’anacronismo della guerra e dello sterminio che fa irruzione nella trama del presente e lo irretisce. Si tratta allora di comprendere qual è il culto religioso che queste immagini paralizzanti stanno tramandando e radicando, a quale funzione politica assicurano il loro magnetismo, quali sono le modalità specifiche in cui entrano in rapporto con una tendenza storica che già Walter Benjamin e poi Jean Baudrillard, in epoche differenti, hanno sorpreso a «fare della sua peggiore alienazione un godimento estetico spettacolare». Anche per ricavarne in controluce il valore delle mobilitazioni del 22 settembre e i potenziali di rottura che quella giornata ci chiede di prendere in consegna e portare a maturazione.
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La pulizia etnica in corso a Gaza costituisce una delle più grandi tragedie della storia dopo la fine della Seconda guerra mondiale e noi ne siamo testimoni. Lo sterminio deliberato della popolazione civile con armi, sistemi elettronici, sostegno politico ed economico di Stati Uniti ed Europa avviene in diretta, così come in diretta è la distruzione deliberata di strutture sanitarie e il blocco dei rifornimenti di viveri e medicinali per gli abitanti di Gaza, bambini inclusi.
Ogni mattina i mezzi di informazione enunciano la cifra degli assassinati palestinesi che sono colpiti dai cecchini mentre cercano di avere un po’ d’acqua o un po’ di farina. Sarebbe stato difficile immaginare di poter vedere un’altra volta il tirassegno su civili inermi, dopo aver letto sui libri di storia i crimini di Amon Göth, che si divertiva a colpire col fucile di precisione prigionieri a caso del campo di Płaszów, prendendo la mira dal balcone della sua villa.
Andrea Inglese: Gaza o del duplice tradimento dell’Occidente
Gaza o del duplice tradimento dell’Occidente
di Andrea Inglese
La preparazione è giunta a buon punto quando gli individui hanno perso il contatto con i loro simili e con la realtà che li circonda; perché, insieme con questo contatto, gli individui perdono la capacità di esperienza e di pensiero”. Così scriveva Hanna Arendt in Le origini del totalitarismo. Nei settantaquattro anni che ci separano dalla prima edizione nel 1951, le nostre democrazie hanno sì mostrato fragilità, storture, contraddizioni a volte imbarazzanti, ma in un contesto apparentemente garantito di dibattito critico e di pluralità di posizioni. Sappiamo ora, ne abbiamo le prove, che non è più così. Qualcosa di questo scollamento nei confronti sia dell’esperienza sia del pensiero sembra riemergere nel discorso pubblico, assieme a un inquietante e tenace diniego di realtà. Il fenomeno è senz’altro profondo e coinvolge varie dimensioni delle nostre società, ma esso ha avuto una sua cristallizzazione evidente nella reazione dell’Occidente “ufficiale” (mediatico e politico) nei confronti di ciò che sta accadendo tra lo stato di Israele e il popolo palestinese.
Prendiamo l’esempio di No Other Land, film di un collettivo di registi palestinesi e israeliani, uscito nel 2024. È stato premiato alla Berlinale e in altri importanti concorsi europei, ha ottenuto l’Oscar per il miglior documentario. Nonostante ciò, No Other Land ha provocato la prevedibile censura israeliana, sostenuta persino dal ministro della cultura. Nemmeno negli Stati Uniti, terra della libertà di espressione, il documentario ha trovato distributori e anche la sua proiezione puntuale ha suscitato polemiche. In Germania, sono invece gli autori stessi a venire accusati di “antisemitismo” (accusa bipartisan, formulata da un sindaco conservatore e una ministra progressista), in seguito alle dichiarazioni fatte durante la premiazione al Festival di Berlino.
Dante Barontini: Ucraina. Il “pacco” di Trump è stato consegnato. Contiene dinamite
Ucraina. Il “pacco” di Trump è stato consegnato. Contiene dinamite
di Dante Barontini
Sul conflitto in Ucraina è importante seguire i giornali europei più “bideniani” e guerrafondai per capire quale sia il “clima” all’interno dei vertici della UE (più la Gran Bretagna), e quali soluzioni siano in ballo sia per la prosecuzione della guerra che per la sua eventuale conclusione.
L’evento più rilevante delle ultime settimane è stata certamente la “svolta” verbale di Trump, che si è prima detto “deluso” da Putin (come se nelle relazioni tra superpotenze i sentimenti avessero anche solo un minimo di ruolo), quindi ha dichiarato che “l’Ucraina può vincere” (tre mesi prima Zelenskij aveva ammesso che proprio non era possibile), poi ha detto “sì” all’eventuale abbattimenti di “oggetti volanti russi” sul territorio della Nato, poi ha rimproverato la stessa Ue perché continua a comprare gas e petrolio da Mosca anziché da Washington, esortando a mettere dazi al 100% sulle merci di Cina e India perché fanno la stessa cosa.
Nell’insieme queste sconclusionate affermazioni erano state accolte positivamente, dai guerrafondai nostrani. Poi anche i più entusiasti hanno cominciato a rifarsi i conti.
Tenuta sottotraccia come notizia, a Bruxelles hanno comunque dovuto registrare che gli Stati Uniti, nel frattempo, stavano smettendo di mandare armi “efficaci” – anche se pagate dalla UE – per scarsità di produzione e mutate esigenze yankee. E questo mentre l’attore di Kiev chiedeva nientepopodimeno che dei missili Tomahawk per bombardare direttamente Mosca o San Pietroburgo. A quel punto mancava solo la richiesta di testate nucleari e il sogno poteva arrivare in fondo…
Emanuele Maggio: 7 punti sulla Questione Palestinese
7 punti sulla Questione Palestinese
di Emanuele Maggio
1) La nascita e la genesi storica dello Stato di Israele è contraria a tutti i principi del diritto internazionale e della convivenza pacifica tra i popoli (art. 1-2 Carta Nazioni Unite, art. 49 IV Convenzione Ginevra, Dichiarazione 2007, Statuto di Roma 1998). Tuttavia, quegli stessi principi stabiliscono L’ATTUALE esistenza e legittimità dello Stato di Israele (“uti possidetis juris”). Anche se una nazione è nata da violenza coloniale illegittima, le seconde generazioni di quella nazione non ereditano alcuna colpa, e ottengono il rango di popolazione stabile che non può essere deportata. Ecco un esempio semplice per far capire che Israele NON POTEVA nascere ma che ormai NON PUÒ essere cancellato: i nativi americani non possono rivendicare il Minnesota perché lo abitavano secoli prima, scacciando la popolazione attuale, né possono dividere il Minnesota a metà, dunque -> il sionismo non poteva rivendicare lo spazio palestinese, né dividerlo a metà come accaduto nel 1948, ma neanche i palestinesi possono rivendicare quello spazio ormai rubato, perché le seconde generazioni israeliane (e americane) non ereditano il peccato coloniale. Attualmente il diritto internazionale è orientato verso la soluzione (ormai solo teorica) dei Due Popoli Due Stati, e protegge sia lo Stato di Israele, sia lo Stato di Palestina (appunto stabilendo che quest’ultimo è occupato illegalmente da Israele). Il trucco retorico di Israele è considerare la propria violenza come legittima difesa perenne in un contesto di soggetti arabi ostili (e in parte è anche vero), ma questo non può valere finché occupa territori altrui, perché l’occupante non ha mai diritto di difendersi.
Fabrizio Casari: Onu, una tribuna abusata
Onu, una tribuna abusata
di Fabrizio Casari
Nei giorni scorsi le Nazioni Unite sono salite alla ribalta con un’Assemblea Generale convocata per prendere parola e ipotizzare azioni a difesa del popolo palestinese, sotto l’attacco genocida israeliano e per dare uno stop a Tel Aviv nelle sue pretese coloniali di annessione della Cisgiordania. Una citazione a parte la merita lo show delirante di Trump, che tra l’imbarazzo generale ha citato guerre inventate, si è attribuito meriti inesistenti, ha sfornato miti di fantasia e minacciato cose che non può mantenere. E’ stata la rappresentazione di come la cosiddetta post verità (termine educato per non dire menzogne) sia ormai la parte consistente della narrazione del fascismo USA 3.0.
Veder passare la direzione della più grande potenza del mondo da un presidente con demenza senile ed ansie di guerra a uno con cesarismo ipertrofico e ansia di rapina, sposta le analisi politiche sotto la lente della psichiatria, dove confutare o smentire affermazioni diventa esercizio inutile al fine della comprensione del fenomenico.
Ma è il discorso di Netanyahu ad aver assunto valore simbolico. Alcuni hanno rilevato come la stessa presenza del boia israeliano in un consesso internazionale fosse uno schiaffo verso la Corte Internazionale di Giustizia (organismo della stessa ONU) che imputa il governo israeliano di condotta genocida e ne raccomanda l’invio a processo.
Ma che la giustizia internazionale non potesse prevalere sull’organismo politico era scontato, nessuna persona che faccia uso di realismo poteva dubitarne.
Emiliano Brancaccio: Palestinesi schiavi moderni: espropriati e resi vagabondi
Palestinesi schiavi moderni: espropriati e resi vagabondi
di Emiliano Brancaccio
Pax trumpiana. La ricostruzione della striscia annunciata da Trump riflette i progetti di Jared Kushner e sodali: attirare capitali da Israele, dagli Stati uniti e anche dai paesi arabi amici per riempire l’area di immobili di pregio, casinò e resort di lusso
Ricordiamo bene la disturbante clip satirica, creata con l’intelligenza artificiale, di Gaza trasformata in una riviera per ricchi villani. Trump e Netanyahu venivano raffigurati in costume, radiosamente stravaccati a bere Tequila sunrise a bordo piscina, in mezzo ai grattacieli. Il filmato fece scalpore perché Trump decise di rilanciarlo sui suoi social. Ebbene, nell’annunciare il piano di pace per la Palestina i due si sono presentati in giacca e cravatta e non hanno brindato, almeno non in pubblico. Eppure, tutto il resto sembrava una perfetta evocazione di quel video mostruoso.
Con la tipica solennità dell’immobiliarista, Trump ha presentato il cosiddetto «consiglio di pace», che egli stesso presiederà. Una istituzione definita «tecnocratica», incaricata di creare uno «sviluppo economico che fornirà un numero illimitato di posti di lavoro e abitazioni per le persone della zona». Di buon auspicio, ma con una piccola ambiguità. Cosa intende con «persone della zona»?
Il caso di Gaza, a questo riguardo, è emblematico. La ricostruzione della striscia annunciata da Trump riflette i progetti di Jared Kushner e sodali: attirare capitali da Israele, dagli Stati uniti e anche dai paesi arabi amici per riempire l’area di immobili di pregio, casinò e resort di lusso.
Assata Shakur: Al mio popolo
Al mio popolo
di Assata Shakur
Lo scorso 25 settembre è deceduta a Cuba Assata Shakur, importante membro delle Pantere Nere prima, della Black Liberation Army poi. La ricordiamo con un testo già pubblicato in Black Fire. Storia e teoria del proletariato nero negli Stati Uniti (DeriveApprodi, 2020; a cura di Anna Curcio), la trascrizione di un messaggio registrato mentre era in carcere
Fratelli neri, sorelle nere, voglio che sappiate che vi amo e spero che da qualche parte nei vostri cuori abbiate amore per me. Mi chiamo Assata Shakur (nome da schiava Joanne Chesimard), e sono una rivoluzionaria. Una rivoluzionaria nera. Con questo voglio dire che ho dichiarato guerra a tutte le forze che hanno violentato le nostre donne, castrato i nostri uomini e tenuto i nostri bambini a pancia vuota. Ho dichiarato guerra ai ricchi che prosperano sulla nostra povertà, ai politici che ci mentono con facce sorridenti, e a tutti i robot senza cervello e senza cuore che proteggono loro e le loro proprietà.
Sono una rivoluzionaria nera e, come tale, sono vittima di tutta l’ira, l’odio e la calunnia di cui l’America è capace.
Come tutti gli altri rivoluzionari neri, l’America sta cercando di linciarmi. Sono una rivoluzionaria nera, e per questo sono stata accusata e di ogni presunto crimine a cui si ritiene abbia partecipato una donna.
Micaela Frulli: Le violazioni di Israele coperte dagli Stati
Le violazioni di Israele coperte dagli Stati
di Micaela Frulli
Ogni analisi relativa alla Global Sumud Flottiglia (Gsf) deve partire dalla situazione giuridica delle acque in cui le imbarcazioni che la compongono stanno navigando. Si trovano in acque internazionali, dove il diritto internazionale non consente a Israele né a nessun altro Stato di intercettarle: vige la libertà di navigazione ai sensi dell’art. 87 della Convenzione Onu sul diritto del mare (Cdm), che ha codificato una consuetudine preesistente e vigente anche per gli Stati che non sono parti della Cdm, come Israele. Il diritto considera il mare internazionale come uno spazio comune utilizzabile esclusivamente a scopi pacifici e che non può essere sottoposto alla sovranità di alcuno Stato (artt. 88 e 89 della Cdm). Obiettivo della Gsf è raggiungere le acque antistanti Gaza, che non possono in alcun modo essere considerate acque territoriali israeliane. Israele non ha titolo di sovranità su di esse, come non ne ha sul territorio di Gaza e sullo spazio aereo e mantiene su tali spazi un’occupazione che la Corte internazionale di giustizia (Cig) ha definito illegale a tutti gli effetti. Solo la Palestina ha diritti sovrani al largo della Striscia, in base all’art. 2 della Cdm, cui ha aderito nel 2015, notificando l’estensione del proprio mare territoriale fino a 12 miglia nautiche dalla costa, come previsto dal trattato. Sul mare territoriale vige il diritto di passaggio inoffensivo delle navi che non recano pregiudizio al buon ordine e alla sicurezza dello Stato costiero.
Rete dei Comunisti: Il 3 ottobre sciopero generale, blocchiamo tutto di nuovo!
Il 3 ottobre sciopero generale, blocchiamo tutto di nuovo!
di Rete dei Comunisti
Governo Meloni complice, rompere con lo Stato d’Israele
Dopo il clamoroso sciopero generale del 22 settembre, il movimento di classe e di solidarietà con la Palestina è chiamato di nuovo a fare tutto il possibile per sostenere la causa del popolo palestinese e forzare la rottura di ogni rapporto politico, diplomatico ed economico con lo Stato terroriste d’Israele.
Il rinnovato protagonismo della classe operaia spinge il Paese intero a battere un altro colpo contro le complicità delle istituzioni e delle imprese italiane col genocidio in corso a Gaza e l’occupazione coloniale della Palestina.
Il governo Meloni e il presidente Mattarella sono pienamente corresponsabili della barbarie sionista, continuando a offrire sostegno a tutti i livelli allo Stato d’Israele insieme a tutto l’Occidente collettivo.
Il blocco in acque internazionali della Global Sumud Flotilla e dei suoi attivisti, tra cui anche “cittadini italiani”, è solo l’ultimo atto criminale del regime sionista coperto dal governo, come già accaduto nei mesi scorsi nel nostro Paese.
Dopo aver trasformato l’Italia in una grande piazza Gaza, le lotte operaie, studentesche, sociali, femminili e ambientaliste venerdì 3 ottobre sono chiamate di nuovo a riunirsi e a riconoscersi in un blocco sociale reale in grado di fermare tutto il Paese e a rinnovare la sfiducia operaia e popolare al governo Meloni.
Fulvio Grimaldi: Tra Est e Ovest, Fratellanze e generali
Tra Est e Ovest, Fratellanze e generali
Egitto, Turchia, Qatar, tre incognite del M.O.
di Fulvio Grimaldi
https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-fulvio_grimaldi__tra_est_e_ovest_fratellanze_e_generali_egitto_turchia_qatar_chi_sono_che_fanno/58662_62820/
In una stagione estiva più tumultuosa del solito, tra i sette fronti aggrediti da Israele, la soluzione finale decisa per Gaza e applicata alla Cisgiordania, l’epidemia di False Flag che l’Occidente allestisce per accreditare riarmo e guerra, lo sgretolarsi di ogni diritto internazionale, umano e democratico in Occidente, l’episodio più intricato e ricco di variabili analitiche è stato l’attacco israeliano al Qatar. Non solo. I colpi forti sono due, quasi in contemporanea. E hanno risuonato per il mondo. Trovandosi perfino in assonanza. Trattasi del colpaccio inflitto al Qatar con quei bombardamenti sul compare e socio d’affari e di quell’altro colpo, l’uccisione di Charlie Kirk, polena della nave ammiraglia a stelle e strisce mentre solca gli oceani e spazza all’impazzata chi si ritrova sulla rotta.
Tutto appare chiaro come l’inchiostro. Israele, per far fuori coloro che con Trump e Qatar, alleati nel destino di classe e di profitto, minacciano di mettergli i bastoni tra le gambe accettando di restituire prigionieri in cambio di tregua, bombarda il pluridecennale confidente arabo. Che non ha ancora visitato il postribolo “Abramo”, ma ne va bussando alla porta. Tanto più che quella tregua è invocata H 24 dagli elettori israeliani, che la sanno legata alla ipotesi detestata da Netanyahu: il rilascio dei coloni fatti prigionieri, detti “ostaggi”.
Con l’assassinio (mancato) dei leader di Hamas, unico autentico giocatore avversario sul campo, a dispetto di quelli (ANP, Abu Mazen, arabi vari) che USA-Sion insistono a mettere sul proscenio, si era puntato a rimettere lo schiacciasassi IFD sul percorso della obliterazione definitiva della questione Palestina. E Charlie Kirk, questa specie di papa della chiesa del fanatismo fascio-bigotto-reazionario, cosa c’entra?
Tra Doha e Orem, Utah
C’entra, se si considera cosa rappresentano l’operazione israeliana sul Qatar e le ricadute che accanitamente si vogliono trarre dal “martirio” di Kirk: In entrambi i casi si sono fatti passi da gigante verso l’abolizione di ogni tipo di regolamentazione dei rapporti fra persone e Stati.
Paolo Selmi: Škola kommunizma: i sindacati nel Paese dei Soviet
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Škola kommunizma: i sindacati nel Paese dei Soviet
di Paolo Selmi
Diciassettesi9ma parte. “Ammettere i propri difetti è privilegio dei forti”: l’intervento di Tomskij al XIV Congresso del Partito Comunista di tutta l’Unione (bolscevico) PARTE VII
g. Sindacato, aziende concessionarie e scioperi
Successivamente, Tomskij esamina il ruolo del sindacato nel settore delle aziende concessionarie, ovvero gli stranieri che hanno ottenuto dallo Stato il permesso di esercitare la propria attività di impresa nel Paese dei Soviet. Pregherei di prestare la massima attenzione a questo brano, perché in esso sono contenute tutte quelle oggettive contraddizioni del sindacato in una NEP che oggi è tanto rivalutata, per non dire osannata da un certo revisionismo neanche troppo strisciante.
Fare onestamente, efficacemente, sindacato in una situazione socioeconomica sempre più disgregata dalle spinte centrifughe di dinamiche capitalistiche di diversa natura, oltre che da frequenti e concomitanti sovrapposizioni e interazioni (o interferenze) degli organismi di partito che contribuivano a confondere ulteriormente le acque, in una prospettiva oggettivamente schizofrenica, dal momento che tali concessioni erano favorite perché rappresentavano economicamente una boccata di ossigeno, ma non dovevano in alcun modo rappresentare una concessione o, peggio ancora, CEDIMENTI, anche sul terreno della lotta di classe, man mano che si aprivano le gabbie diventava un’impresa sempre più ardua. Diamo ora la parola al Segretario:
Permettetemi ora qualche parola del lavoro sindacale nelle aziende concessionarie. Due sono le deviazioni che possiamo notare da parte dei sindacati. La prima consiste nel riprodurre anche in tali aziende, meccanicamente e in toto, il metodo adottato nelle statali: nelle statali ci sono le assemblee di produzione? Facciamole anche nelle concessioni! Nelle statali c’è la commissione di produzione? Portiamola anche di là! La campagna per la la produttività del lavoro? Lo stesso anche lì! E così via. E che questa sia una deviazione in molti, ancora, non lo capiscono! E c’è anche l’estremo opposto.
Di titubanze e atteggiamenti ambigui verso le concessioni purtroppo ne abbiamo, e questo ci porta a mantenere una linea ferma, definita centralmente, nei confronti della tattica da tenere con le aziende concessionarie.
Lelio Demichelis: La Tecno-archía – ovvero la Nave dei folli
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La Tecno-archía – ovvero la Nave dei folli
di Lelio Demichelis
Di Lelio Demichelis è da poco uscito un nuovo saggio di critica radicale dei sistemi tecnici e del capitalismo, della modernità industriale e della sua volontà di onnipotenza che produce nichilismo ed ecocidio – saggio che ha per titolo: Tecno-archía o la Nave dei folli. La banalità digitale del male, pubblicato da DeriveApprodi (p. 294, € 23,00). E se la critica alla modernità non è ovviamente cosa nuova, nuovo è dire che la modernità è diventata una archía, un potere archico – e quindi in conflitto ontologico e teleologico con libertà, democrazia, società e biosfera. Da cui si può/deve uscire quindi solo con un pensiero anti-archico/an-archico (ma in un senso diverso dall’anarchismo classico) e cioè demo-cratico. Ovvero non basta uscire dal capitalismo (ammesso che qualcuno lo pensi ancora…) e dai sistemi tecnici integra(n)ti e totalizzanti se a monte non si esce da ciò che li predetermina. Appunto la tecno-archía.
Per gentile concessione dell’Editore ne pubblichiamo alcuni estratti, presi dall’Introduzione e dall’ultimo capitolo dedicato alla sinistra.
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L’era della tecno-archía – e dei suoi tecno-oligarchi – sembra essere iniziata il 20 gennaio 2025, ma è il nome che qui diamo alla modernità/iper-modernità come combinazione di calcolo, rivoluzione scientifica e industriale; di capitalismo e di sistema tecnico; di positivismo e pragmatismo; e poi di complesso militare-industriale-scientifico; di illibertà mascherata da libertà; di ingiustizia e disuguaglianza come scelta politica; di finzioni di democrazia e di governo reale del mondo da parte di imprenditori autocratici e del capitale; di ecocidio compulsivo; di razionalità strumentale/calcolante-industriale che ha prodotto l’eclisse della ragione (richiamando Max Horkheimer).
Rami Abu Jamous: “La responsabilità non è dell’occupante, ma dell’occupato”
“La responsabilità non è dell’occupante, ma dell’occupato”
di Rami Abu Jamous
Rami Abu Jamous scrive il suo diario per Orient XXI. Giornalista fondatore di GazaPress, un’agenzia di stampa che forniva aiuto e traduzioni ai giornalisti occidentali, Rami ha dovuto lasciare il suo appartamento a Gaza con la moglie e il figlio Walid di due anni e mezzo. Rifugiatisi a Rafah, la famiglia è stata poi costretta a un nuovo esilio prima a Deir al-Balah, poi a Nuseirat, bloccata come tante famiglie in questa enclave miserabile e sovraffollata. Un mese e mezzo dopo l’annuncio del cessate il fuoco, Rami è finalmente tornato a casa con la moglie, Walid e il figlio appena nato, Ramzi. Per il suo Diario da Gaza, Rami ha ricevuto tre importanti riconoscimenti al premio Bayeux per i corrispondenti di guerra. Questo spazio gli è dedicato dal 28 febbraio 2024.
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Giovedì 4 settembre 2025.
Qualche giorno fa, ho ricevuto una telefonata da un’amica che vive in Francia:
— Rami, a quanto pare, questa volta la situazione è grave. Gli israeliani occuperanno l’intera Striscia di Gaza e deporteranno tutta la popolazione. Il piano è già pronto e verrà realizzato. Non è meglio per te cercare di evacuare?
— Perché dovrei andarmene?
Pasquale Liguori: Gaza e la cronaca dell’inadeguatezza borghese
Gaza e la cronaca dell’inadeguatezza borghese
di Pasquale Liguori
Ci sono articoli che, senza volerlo, finiscono per dire molto più sulla società che li produce che sull’evento che raccontano. L’articolo “Pensieri in marcia per Gaza. Tra rabbia e scollamento” di Giulia Pilotti su Domani, in cui narra la sua partecipazione al corteo milanese per Gaza, non è tanto un’analisi politica quanto un diario di coscienza. Eppure, ha un merito: quello di dichiarare con un candore quasi disarmante tutto ciò che solitamente viene nascosto dietro la retorica della piazza e del presunto “movimento nascente”.
L’incipit è già rivelatore: “Lunedì scorso, sotto una pioggia da monsone thailandese, ho portato mio figlio all’asilo per poi unirmi al corteo… A dirla tutta, prima sono andata a fare colazione in pasticceria, per rispondere alla domanda di Gassman ne La terrazza: a che ora è la rivoluzione? E come si viene, già mangiati?”. Non c’è riconoscimento dell’urgenza storica, né riferimento al genocidio, peraltro mai nominato nel testo. Gaza non entra in scena come ferita viva, ma come sfondo lontano. Milano è il teatro e, soprattutto, il centro resta l’io narrante, impegnato a registrare le proprie tappe quotidiane prima della marcia. È la riduzione della tragedia a cornice esistenziale, la politica come intermezzo nella routine, e già qui si delinea l’orizzonte di un gesto che non trascende l’autonarrazione.
Tra un passo e l’altro, la colonna sonora del corteo evoca ancora una volta la dimensione privata più che quella pubblica:
Cosimo Scarinzi: Appunti sulla giornata di lotta del 22 settembre
Appunti sulla giornata di lotta del 22 settembre
di Cosimo Scarinzi
Sulla giornata di mobilitazione del 22 settembre 2025 contro il genocidio a Gaza riportiamo queste riflessioni di Cosimo
Ritengo si debba partire da un dato quantitativo, più di 80 manifestazioni, alcune con decine di migliaia di partecipanti, altre con migliaia portano a una presenza in piazza in occasione dello sciopero di lunedì 22 settembre di centinaia di migliaia di persone.
Un dato ancora più significativo se si tiene conto del fatto che lo sciopero e l’assieme delle mobilitazioni sono stati costruiti in pochi giorni, che la CGIL ha organizzato come controfuoco uno sciopero e una serie di manifestazioni su temi simili per venerdì 19.
Un dato che ci dice che lo sciopero ha coinvolto sui posti di lavoro molte/i lavoratrici e lavoratori che non hanno come riferimento sindacale il sindacalismo di base e che sono venuti in piazza anche lavoratori autonomi, insomma che si è andati ben oltre il mondo del sindacalismo di base e della sinistra radicale.
Questo senza, ovviamente, sottovalutare una robusta presenza di studentesse e studenti per i quali il 22 settembre non era, dal punto di vista della conduzione immediata, significativamente diverso dalle molte manifestazioni sugli stessi temi che si sono tenute negli ultimi mesi. Sarebbe anzi oggetto di un’interessante inchiesta militante la comprensione che gli studenti hanno della differenza fra sciopero delle lavoratrici e lavoratori e manifestazione.
Davide Malacaria: La svolta di Trump sull’Ucraina è solo retorica
La svolta di Trump sull’Ucraina è solo retorica
di Davide Malacaria
La svolta di Trump sul conflitto ucraino, a quanto pare, resta limitata alla retorica. In realtà, al di là delle roboanti critiche a Mosca, il nocciolo del discorso all’Onu era una presa di distanza dalla guerra con relativo scaricabarile sulla sola Europa. Lo ha capito anche la stolida rappresentate degli Esteri Ue Kaja Kallas, che in un’intervista ha dichiarato: “Non possiamo essere solo noi“, Trump deve aiutarci.
Peraltro, che fosse quello il punto focale del discorso lo conferma il New York Times: “Grattando la superficie, un desiderio più profondo sembra celarsi nel cambiamento di posizione di Trump […]. Trump sembra volersi lavare le mani del conflitto ucraino, dal momento che non è riuscito a portare il presidente Vladimir Putin al tavolo dei negoziati e ha visto diminuire le sue possibilità di agire come mediatore”.
Il rapporto Usa-Russia resta più o meno inalterato, come conferma l’incontro avvenuto in parallelo al’invettiva di Trump, tra il Segretario di Stato Marco Rubio e il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov. A dimostrazione della proficuità del vertice, la risposta di Lavrov a un cronista che gli chiedeva come fosse andata. Nessuna parola, solo un gesto inequivocabile: pollice in sù.
L’intemerata di Trump all’Onu era un modo per allentare le pressioni che il partito della guerra sta esercitando su di lui, incrementate dagli sviluppi del mese di settembre, tra cui l’assassinio di Charlie Kirk, che l’ha mandato in confusione. Ha dato loro quel che volevano, ma solo a livello retorico.
Marco Bersani: Cinquanta gusci di noce
Cinquanta gusci di noce
di Marco Bersani
Il blocco delle barche della Flotilla, avvenuto manu militari da parte dell’esercito israeliano nella notte, costituisce un crimine di guerra. Non così tragico -speriamo- come quelli che quotidianamente avvengono a Gaza (anche oggi all’alba oltre 70 morti), ma identico dal punto di vista giuridico internazionale: Israele ha assaltato in acque internazionali una flotta di navi disarmate con persone provenienti da 44 Paesi che portavano con sé cibo e medicinali.
Un crimine contro il quale ogni governo democratico dovrebbe ribellarsi con forza e determinazione.
Non è il caso dell’Italia, dove i massimi esponenti di governo fanno a gara a chi si comporta in maniera più indegna.
Partiamo dalla Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, che dopo aver dato il via libera ideologico a Israele (“Quelli della Flotilla sono irresponsabili”) e dopo aver fatto dichiarazioni deliranti (“Stanno mettendo a rischio il piano di pace del mio amico Donald”) da oltre 24 ore è muta come un pesce. Evidentemente attonita nel constatare come le piazze del paese si sono spontaneamente riempite già nella serata di ieri, pronte a esondare oggi, a bloccare tutto domani e a convergere sabato per la Palestina.
Quasi incredibile il Ministro degli Esteri, Antonio Tajani, che è riuscito nel corso dell’intera serata e su tutti i canali a fare il telecronista del crimine di guerra: “Ecco, vedete li fermano…ma è un blocco, non un assalto..ora li porteranno sulla nave militare, poi li porteranno ad Ashkelon, poi li espelleranno”.
OttoParlante: Ventidue italiani sequestrati da un’organizzazione terroristica. Tajani: “sono stati gentili”. Il Paese è in fiamme
Ventidue italiani sequestrati da un’organizzazione terroristica. Tajani: “sono stati gentili”. Il Paese è in fiamme
OttoParlante – La newsletter di Ottolina (2/10/25)
Il Marru
Decine di italiani sono stati sequestrati dalla più spregiudicata organizzazione terroristica del pianeta a scopo di estorsione: il popolo italiano invade strade e piazze per chiederne il rilascio incondizionato; governo italiano non pervenuto. Non c’è nessun bisogno di entrare nel merito della partigianeria politica per comprendere l’enormità di quello che sta succedendo in queste ore: basta guardarlo dal punto di vista di quelle regole e di quel diritto che da 40 anni l’Occidente invoca a caso per giustificare ogni sorta di aggressione militare ai quattro angoli del pianeta; evidentemente, però, quando lo spiegavano a scuola, Tajani era assente. Come era assente ieri sera, mentre 22 italiani venivano illegalmente sequestrati dopo una massiccia operazione di pirateria: manco un commentino; per sentirlo, bisognerà aspettare le 9 e 08 della mattina seguente. Siamo in Parlamento, e sembra di essere in un universo parallelo: “Questa terribile tragedia è nata il 7 ottobre di due anni fa dall’aggressione terroristica rivolta contro la parte più pacifica di Israele”, esordisce il Ministro; “Israele è stata aggredita ed ha il pieno diritto di difendersi”, ma senza eccedere. D’altronde, sottolinea, “Gaza non è Hamas”; anzi, “I palestinesi sono le prime vittime di Hamas”. Noi, però, abbiamo fatto tutto quello che andava fatto, e io “sono orgoglioso di far parte di un Paese che ha fatto più di chiunque altro per i gazawi”.
Andrea Zhok: In difesa della Flotilla
In difesa della Flotilla
di Andrea Zhok
Due parole sulla vicenda della “Flotilla”, con una considerazione politica generale.
Che nella Flotilla ci fossero (ci siano) personaggi in cerca di notorietà personale è sicuro (almeno uno si è palesato).
Che questo tipo di iniziative abbia un carattere eminentemente mediatico, con elementi di spettacolarizzazione, e che sia un passo indietro rispetto a eventuali iniziative politiche, pressioni, sanzioni, ecc. è sicuro.
Che alcuni cerchino di strumentalizzare la vicenda per colpire i rispettivi governi in carica – quasi ovunque appiattiti su una posizione sionista – è decisamente plausibile.
Che a questa iniziativa partecipino molti soggetti che su altri temi sociali importanti hanno manifestato nel recente passato una consapevolezza politica carente o nulla è un fatto.
E tuttavia.
1) Tra fare qualcosa e non fare un cazzo c’è sempre un abisso. Dunque onore a chi, di fronte al male, si sbatte per fare qualcosa.
2) Nel caso specifico dei rapporti con Israele — stato canaglia notoriamente privo di qualunque scrupolo e dotato di mezzi finanziari e militari colossali — chiunque si profili come ostile alle politiche di Israele comunque mette in campo almeno un pochino di coraggio. E in un’epoca dove i capi di stato o della chiesa – gente con il culo straordinariamente al caldo – abbozzano, fischiettano, quando non supportano senz’altro un genocidio, anche a questo, piccolo o grande coraggio civico, va dato atto.
Redazione: La Flotilla non molla. A terra manifestazioni di massa, domani sciopero generale
La Flotilla non molla. A terra manifestazioni di massa, domani sciopero generale
di Redazione
Alcune navi della Global Sumud Flotilla, sfuggendo alla marina militare israeliana, stanno continuando la loro rotta verso Gaza. Duecento attivisti abbordati e arrestati da Israele. Ieri imponenti manifestazioni in molte città italiane a sostegno della Flotilla. Anche oggi pomeriggio convocate nuove manifestazioni. Domani confermato lo sciopero generale di Usb, Cgil e sindacati di base. Sabato la manifestazione nazionale a Roma.
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Aggiornamenti:
La missione impossibile della Mikeno. Rotto il blocco navale israeliano davanti Gaza, “Vendicata” la Mavi Marmara
Una delle imbarcazioni della Global Sumud Flotilla, la turca Mikeno, ha compiuto ciò che fino a questa mattina era stato impossibile da anni: raggiungere le acque antistanti la Striscia di Gaza, superando il blocco navale israeliano. La Mikeno, che secondo l’ultima posizione registrata dal sistema di tracciamento alle 6.23 del mattino di giovedì 2 ottobre risulta essere entrata nelle acque davanti a Gaza, segnando un momento storico per questa missione. Mentre questa imbarcazione proseguiva la sua rotta verso la destinazione finale, il resto della flotta affrontava l’intervento della marina militare israeliana, che ha intercettato circa 19 imbarcazioni delle quasi quaranta che componevano la spedizione.




