Rassegna – 10/10/2025
Fulvio Grimaldi: IL 7 ottobre è un altro e 1 milione di manifestanti lo sa
IL 7 ottobre è un altro e 1 milione di manifestanti lo sa
L’origine di un genocidio, di una flottiglia, di un “accordo di pace”
di Fulvio Grimaldi
Mentre scrivo dalla data di uscita dell’articolo nella mia rubrica di martedì manca qualche giorno. Distanza dovuta a un accumularsi di impegni, sanitari e di convegni, non rinviabili. Chiedo perciò scusa se avrò dovuto bucare qualcosa di importante inerente all’argomento del pezzo, cosa possibile data la tumultuosità degli accadimenti. Ho fatto in tempo, però, a vivere il privilegio di assistere, nelle notti e nei giorni attorno al cambio del mese, a una della più grandi, belle, valide espressioni di civiltà e coraggio umani. Civiltà e coraggio sulla Flotilla e parallelamente in Italia, vera avanguardia europea, la gigantesca sollevazione di popolo del 3 e 4 ottobre contro la barbarie genocida e i suoi sicari in Occidente e a dispetto del ratti in fuga che ci governano. Un ottobre come un maggio parigino di 57 anni fa. Allora grazie al Vietnam, oggi alla Palestina. E’ sempre dal Sud globale, quello che allora chiamavamo Terzo Mondo, che viene la salvezza.
* * * *
Nel milione di manifestanti del 3 e 4 ottobre non s’è udito nessuno azzardare una sola parola di biasimo, o di condanna, o di critica, a Hamas. Bella risposta a Travaglio e al suo inserto nel Fatto Quotidiano in cui ben 14 paginoni sono state riempite da firme ritenute illustri per ripetere l’assunto che Israele ritiene giustifichi l’orrore di Gaza: il terroristico pogrom di Hamas del 7 ottobre, con la carneficina di 1.200 civili e relativi stupri. A salvarsi è rimasta la sola Barbara Spinelli che, forse, ha intuito che se un milione di persone applaudono a un cartello con la scritta “Verità sul 7 ottobre” e se gli stessi israeliani di Haaretz rifiutano la fabbricazione del loro governo, qualche motivo per pensarci dovrebbe esserci.
Quelli che… poveri palestinesi ma quei terroristi di Hamas…”Il governo di Israele e il vertice di Hamas, cioè le due organizzazioni terroristiche…”, “”Israele appoggiava Hamas per cancellare la già debolissima ANP… “Entrambi, Israele e Hamas, i guardiani del loro inferno”…” E’ un genocidio, ma le atrocità commesse da Hamas il 7 ottobre”…”La strage dei milleduecento innocenti perpetrata il 7 ottobre 2023 dai macellai di Hamas”… “Sentimenti ovviamente ignoti al terrorismo di Hamas”…
Linda Brancaleone: È l’accademia, bellezza!
È l’accademia, bellezza!
di Linda Brancaleone
1. “Oggi la precarietà è dappertutto”: un’introduzione necessaria
La precarietà è ormai la cifra del nostro tempo, si trova «dappertutto»[1], come ammoniva Bourdieu. Non è solo una condizione lavorativa: è una forma di vita, un destino imposto a una generazione che ha fatto dell’incertezza la propria biografia. Il “precariato” – fusione simbolica di precario e proletariato – definisce un nuovo soggetto sociale, sfruttato e vulnerabile, privato di garanzie e diritti, gettato nel limbo di contratti a termine, borse malpagate, rinnovi a singhiozzo. È una condizione «che si radica anzitutto nella sfera occupazionale»[2], ma si estende a tutte le altre: abitativa, relazionale, affettiva. Nulla sfugge al morbo della precarietà.
Né si tratta di una questione privata: la precarietà si fa istituzione, criterio di governo. Come nei sistemi neoliberali descritti dalla sociologia più critica, i meccanismi di welfare vengono piegati per “espellere” i lavoratori instabili, trasformando la mancanza di stabilità in colpa individuale. Il precario diventa, per usare le parole della dottrina, un «impossible group»[3], una moltitudine di esclusi accomunati solo dalla mancanza: di sicurezza, di diritti, di voce. Nessun senso di appartenenza, nessuna “comunità occupazionale”: solo la solitudine di chi naviga a vista in un mare di incertezze.
A rendere questa condizione più insidiosa è la vulnerabilità, intesa come «elevata esposizione a certi rischi»[4] unita all’incapacità di difendersi dalle loro conseguenze. Guy Standing ha descritto bene questa categoria: i precari non sono solo lavoratori poveri, ma cittadini dimezzati, esclusi dal tessuto sociale, privi di riconoscimento[5]. La loro esistenza è frammentata, il loro tempo sequestrato. È qui che la precarietà diventa biopolitica: il potere plasma i corpi e ne regola i ritmi, “autorizzando” solo forme di vita funzionali all’economia dell’incertezza.
2. Il ddl Bernini: la riforma che moltiplica la precarietà
Ferdinando Bilotti: Trump: il difensore delle élite che le élite non amano
Trump: il difensore delle élite che le élite non amano
di Ferdinando Bilotti
Immaginate di essere un giocatore di roulette che prima si è arricchito, grazie a una serie di puntate favorevoli, ma cui successivamente è andata male per parecchie volte di seguito. Avete consumato quasi tutte le vostre fiches, e la prospettiva di doversi alzare dal tavolo con le tasche vuote si è fatta maledettamente concreta. Cosa fate? Chiaramente, le opzioni possibili sono due. Potete adottare una condotta di gioco molto cauta, in modo da potere continuare a puntare a lungo anche in questa situazione di difficoltà: con un po’ di fortuna, potreste riuscire a riguadagnare un piccolo gruzzolo. Oppure potete puntare in un colpo solo tutto ciò che vi rimane: se vi va male siete rovinati, ma se vi va bene vi siete rifatti abbondantemente delle perdite.
Eccovi spiegata la politica americana degli ultimi anni.
Come abbiamo già scritto nell’articolo del 21 agosto, a partire dagli anni Ottanta le grandi imprese hanno sempre più trasferito le proprie produzioni in paesi dove i salari erano più bassi che negli USA (Messico, Sud-Est asiatico, poi soprattutto Cina). Negli anni, la loro fuga ha assunto portata tale da determinare una vera e propria desertificazione industriale, con ricadute gravi sulla condizione delle classi lavoratrici (oggi diffusamente sottooccupate e malpagate, non trovando di meglio da fare che lavoretti precari e dequalificati… quando li trovano) e sulla solidità finanziaria del paese (in ragione del restringimento della base imponibile, determinato dall’impoverimento dei lavoratori). A quest’ultimo riguardo, ci si farà notare che il governo ha comunque mantenuto la possibilità di tassare le ricchezze dei proprietari delle aziende, nonché le attività che queste ultime hanno continuato a condurre in patria (come quelle finanziarie, generatrici di ingentissimi profitti). Vero: “la possibilità” ha continuato a esserci. In concreto, però, ai ricchi è stato consentito di non pagare più le tasse, in quanto l’imposizione sui profitti societari e sui redditi elevati è stata drasticamente ridotta.
Fabrizio Poggi: Per Bruxelles la guerra è l’ultima possibilità e i giornali di regime vi si adeguano
Per Bruxelles la guerra è l’ultima possibilità e i giornali di regime vi si adeguano
di Fabrizio Poggi
La situazione internazionale, scrive la signora Alessandra Ghisleri su La Stampa del 7 ottobre «genera smarrimento, confusione e – forse più di tutto – paura», anche perché le persone sono costrette a «navigare un’informazione parziale, frenetica e spesso polarizzata». Vien da rispondere con la locuzione oraziana “de te fabula narratur”: è dei vostri giornali di regime che si parla, impegnati ad alimentare un clima di guerra, per preparare le coscienze ai “necessari” tagli a salari, pensioni, sanità e per convincere le masse che, come ha proclamato l’ex Segretario NATO, Jens Stoltenberg: «Un miliardo per la difesa dell’Ucraina è un miliardo in meno per assistenza sanitaria o istruzione. Ma, un prezzo più alto, sarebbe quello di permettere a Putin di vincere. Pertanto, dobbiamo farci carico dei costi e pagare per la pace».
E voi, giornali del bellicismo eurogovernativo, fate a gara a infuocare quella “confusione” e quella “paura”, bramosi di fare da megafono alle parole di Vladimir Zelenskij che, dite, «hanno avuto un effetto deflagrante. L’avvertimento che la guerra in Ucraina potrebbe estendersi oltre i suoi confini ha toccato le corde profonde delle paure collettive». Come no: è il vostro mestiere quotidiano, da mesi, quello di rinfocolare le “paure collettive” per alimentare la corsa al riarmo e alla militarizzazione della società. Così che non vedete l’ora di proclamare che «il 39,7% degli italiani teme che anche il nostro Paese possa diventare un potenziale obiettivo della Russia di Vladimir Putin» e per moltiplicare quei timori, non trovate niente di meglio che citare anche l’attuale segretario NATO Mark Rutte: «Siamo tutti minacciati dalla Russia, anche l’Italia». Orsù dunque, armiamoci e prepariamoci alla guerra, per difendere i «cieli e i confini della NATO» dalle fameliche orde iperboree.
Luigi Tedeschi: Meloni: il governo della deindustrializzazione italiana
Meloni: il governo della deindustrializzazione italiana
E la sinistra esorcizza i suoi tradimenti con il genocidio di Gaza
di Luigi Tedeschi centroitalicum.com
È in corso un processo di deindustrializzazione dell’Italia che rischia di divenire un Paese condannato al sottosviluppo. Ma la politica economica del governo non incontra alcuna opposizione da parte della sinistra. Strumentalizzando la protesta popolare, la CGIL di Landini vuole autoassolversi dalle sue responsabilità inerenti la devastazione dello stato sociale messa in atto dai governi (specie di sinistra), sin dal sorgere della seconda repubblica
Se esaminiamo la politica economica del governo Meloni alla luce del processo di dismissione delle imprese strategiche in atto, i risultati si rivelano devastanti. Assistiamo infatti alla progressiva decomposizione della struttura industriale italiana, con la cessione da parte dello Stato di imprese essenziali alla salvaguardia della sovranità e dello sviluppo economico del paese, con pesanti ricadute per la crescita e l’occupazione. Appare evidente che per le esigenze di equilibrio dei conti pubblici, l’azione governativa è finalizzata a fare cassa. Il governo Meloni non ha implementato alcuna strategia di sviluppo per l’economia italiana. Vogliamo dunque proporre un elenco sommario delle più rilevanti dismissioni industriali messe in atto dal governo negli ultimi tempi.
1) Ilva. Trattasi della seconda acciaieria europea per dimensioni produttive. Il suo destino appare oscuro. Dopo l’arresto di Emilio Riva e il susseguente commissariamento statale, fu ceduta nel 2017 all’indiana Arcelor Mittal, a cui subentrò nel 2021 l’agenzia governativa Invitalia e fu rinominata “Acciaierie d’Italia S.p.a”.
Redazione – OSA: Tsunami di occupazioni nelle scuole, gli studenti continuano a bloccare tutto
Tsunami di occupazioni nelle scuole, gli studenti continuano a bloccare tutto
di Redazione – OSA, Opposizione Studentesca d’Alternativa
Questa mattina forse Giorgia Meloni si è svegliata pensando che il “weekend lungo” – come lo ha chiamato lei – dei solidali con la lotta dei palestinesi fosse finito. Invece, sono tante le scuole che in varie città d’Italia stanno venendo occupate da studentesse e studenti. I più giovani sanno bene che non bisogna distogliere l’attenzione dal genocidio in corso in Palestina, e non permetteranno che ciò accada.
Gli studenti continuano a fare proprie le parole lanciate dai portuali di Genova del CALP e poi fatte proprie dall’intero paese durante i due scioperi generali del 22 settembre e del 3 ottobre, chiamati dall’Unione Sindacale di Base e altri sindacati conflittuali: bloccare tutto, per imporre al governo di rompere tutti gli accordi con Israele e di porre fine al terrorismo sionista che colpisce tutto il Medio Oriente.
Il governo è alle strette, sotto il peso della sua complicità e della corsa verso il baratro del riarmo e della guerra fatta propria, chi più chi meno, da tutto l’arco parlamentare. I giovani stanno tenendo attiva un’opposizione reale in un paese in cui le coscienze si sono risvegliate, saldando la propria lotta con quella dei lavoratori.
Riportiamo qui sotto il comunicato nazionale diffuso dall’OSA – Opposizione Studentesca d’Alternativa in merito allo tsunami di occupazioni in corso.
Il Chimico Scettico: L’era dell’effimero e le sue conseguenze
L’era dell’effimero e le sue conseguenze
di Il Chimico Scettico
Come osservava Georg Christoph Lichtenberg, o secondo la versione più nota attribuita ad Albert Einstein, “L’educazione è ciò che rimane dopo che si è dimenticato tutto ciò che si è imparato a scuola”. Non si tratta quindi di accumulo mnemonico, ma di qualcosa di più profondo e strutturale. Io me la ricordo in un’altra versione, dai tempi del liceo: la cultura è quel che rimane dopo aver scordato.
Erano tempi diversi in cui “analfabetismo funzionale”, per esempio, era una locuzione inesistente. Mentre qualche volta veniva usato l’aggettivo “incolto”.
Mutuando dalla Treccani:
incólto agg. [dal lat. incultus, comp. di in–2 e cultus «cólto»]. – 1. Non coltivato: luoghi, terreni i.; molti poderi più dell’ordinario rimanevano i. e abbandonati (Manzoni). Anche sostantivato (sottint. terreno): pianta che cresce negli i.; i. produttivo, quello che ha qualche possibilità di utilizzazione agricola. Di pianta, lasciata crescere senza alcuna cura: ulivi incolti. 2. Che non ha, o non ha avuto, le cure necessarie: stile i., sciatto, poco curato; più com., riferito all’acconciatura, alla cura della persona, negletto, trascurato: capelli i., barba i.; incolta si vide e si compiacque, Perché bella si vide ancor che incolta (T. Tasso). 3. Che manca di cultura, non ingentilito dall’educazione e dallo studio: uomini i., popolazione incolta. Con accezione più partic., ingegno i., vivace ma non disciplinato, che ha perciò qualcosa di selvaggio, di primitivo. ◆ Avv. incoltaménte, soprattutto con il sign. 3, in modo rozzo, che rivela scarsa cultura: parlare, scrivere incoltamente.
Claudia Rotondi: “La passione della ragione”
“La passione della ragione”
recensione di Claudia Rotondi*
Bellofiore R. (2024), La passione della ragione. Scienza economica e teoria critica in Claudio Napoleoni, Milano: Mimesis, pp. 586, ISBN: 9791222313948
Una premessa. Per leggere questo volume occorre avere passione per la ragione, passione per il ragionare. Con questo viatico vi si può accostare anche chi non è esperto di Claudio Napoleoni o dei lavori di Riccardo Bellofiore su Napoleoni ma ha “passione” per il metodo nello studio dell’economia, per l’economia intesa come scienza sociale, per la ricerca di senso nell’esercizio della propria professione.
Il volume scritto da Riccardo Bellofiore è diviso in due parti. La prima parte è la riedizione – con modifiche e integrazioni – del testo dallo stesso titolo pubblicato nel 1991 per Unicopli e comprende cinque saggi redatti tra il dicembre 1985 e il febbraio 1991. La seconda parte riprende, anche in questo caso integrandoli, sette saggi scritti tra il 1992 e il 2024. Un testo impegnativo, frutto di oltre quarant’anni di studi attorno al complesso rapporto di Claudio Napoleoni con l’economia intesa come scienza sociale e dunque con tutto ciò che ruota attorno a questa concezione: con la teoria economica, con la storia dell’analisi e del pensiero economico, con la politica economia, con la metodologia della ricerca, con la filosofia. Il tanto tempo dedicato al pensiero di questo autore ha dato i suoi visibili frutti e i saggi compongono un insieme articolato che riflette anche i diversi accenti che Bellofiore ha voluto e saputo dare alle sue analisi.
Ripercorrere sia pure sinteticamente i tanti capitoli del volume aiuta a cogliere l’unità sottostante alla apparente frammentarietà.
Il primo capitolo della prima parte ci parla di Napoleoni “economista critico”, autore di un pensiero volutamente “radicale” perché, come ricorda Bellofiore, teso ad andare alla radice delle questioni. Qui possiamo ricostruire il suo percorso scientifico così come scandito da fasi individuate e denominate da Bellofiore: “Dalla guerra alla ricostruzione”; “Gli anni Cinquanta e il Dizionario di Economia Politica”; “Il periodo della Rivista Trimestrale”; “Il ritorno a Marx e il dibattito sulle riforme”; “La critica della teoria del valore”; “Oltre la centralità dell’economico”; “Scienza e critica”.
Infoaut: Alcune riflessioni a caldo su “Blocchiamo tutto”
Alcune riflessioni a caldo su “Blocchiamo tutto”
di Infoaut
È quasi impossibile fare un bilancio organico di queste giornate incredibili. Il movimento “Blocchiamo tutto” ha rappresentato una vera discontinuità politica e sociale nella storia italiana
Milioni di persone in piazza in tutta Italia. Due scioperi generali effettivi nel giro di una settimana, cortei spontanei, blocchi diffusi ovunque e una composizione tanto eterogenea e trasversale che è difficile fare paragoni con il passato recente. Il movimento “Blocchiamo Tutto” ha in pochi giorni attraversato ogni ambito dell’agire sociale nel nostro paese, dalle carceri dove alcuni detenuti hanno scioperato, fino alle ambasciate italiane in giro per il mondo. E potenzialmente, a date condizioni, le possibilità per un’ulteriore generalizzazione ci sarebbero. Il movimento potrebbe crescere ancora in territori e settori sociali poco lambiti dalla politica sia istituzionale che di movimento. La dinamica che si è attivata grazie alla generosità degli attivisti e delle attiviste della Global Sumud Flotilla, alla determinazione dei portuali del CALP e al colpo di reni del sindacalismo conflittuale sta condizionando l’intero quadro politico italiano ed europeo. Forse addirittura quello globale. Senza farsi troppe illusioni il timing del Piano Trump suggerisce che l’onda montante dell’indignazione dell’opinione pubblica contro il genocidio del popolo palestinese ha svolto un ruolo tutt’altro che marginale. D’altronde per chi come noi continua a riflettere sulla lezione operaista la cosa non è così strana, il capitalismo e le sue forme istituzionali si ristrutturano anche sulla spinta delle lotte sociali, persino quando le mistificazioni capitaliste non permettono di coglierne limpidamente il nesso causale.
L’accelerazione a cui stiamo assistendo non ha precedenti storici recenti ed è qualcosa di molto diverso da altri cicli di mobilitazione, pure di massa e trasversali che però avevano caratteristiche ben codificate nelle tradizioni dei movimenti sociali.
Bisogna assumere fino in fondo questa constatazione. Prendere atto della cesura storica e comprendere che le piazze hanno di gran lunga superato le capacità organizzative delle strutture di movimento, sebbene queste abbiano avuto un ruolo tutt’altro che secondario nel permettere che questa alchimia si verificasse.
Aurélien: Ripartire da zero
Ripartire da zero
Finlandizzazione 2,0?
di Aurélien
Ho scritto diverse volte della situazione scomoda derivante dall’imminente sconfitta in Ucraina e delle spiacevoli conseguenze per l’Europa che potrebbero derivarne. Ora vorrei avanzare alcuni suggerimenti provvisori su come potrebbe essere sensato per l’Europa reagire. (Gli Stati Uniti sono diversi, e semplicemente non conosco abbastanza il Paese per poter esprimere un parere adeguato.) Il mio scopo qui non è quello di dare consigli non richiesti ai governi (a meno che non abbiate lavorato nel governo, non avete idea di quanto possa essere irritante), ma piuttosto di esporre in termini semplici ciò che potrebbe essere fattibile. Inizio con la situazione strategica, passo ai vincoli e poi espongo alcune possibili vie da seguire.
In primo luogo, i paesi europei si troveranno in una situazione senza precedenti nella loro storia. Ricordiamo che, nonostante l’Europa venga pigramente definita il “Vecchio Continente”, la sua struttura politica attuale è molto recente. La Germania, nella sua forma attuale, risale solo al 1990, la Repubblica Ceca e la Slovacchia al 1993. La disgregazione dell’ex Jugoslavia in nazioni indipendenti non si è realmente conclusa fino all’indipendenza del Kosovo nel 2008. (A proposito, la Norvegia ha ottenuto la propria indipendenza solo nel 1905). Ma soprattutto, lo Stato nazionale non era tradizionale in Europa: nel 1914, la maggior parte degli europei viveva in imperi, come aveva sempre fatto. Inoltre, ampie zone dell’Europa sudorientale si erano liberate solo di recente da secoli di dominazione dell’Impero Ottomano: il colonialismo durò più a lungo in Europa che nell’Africa subsahariana, ad esempio.
Quindi, l’unico momento vagamente paragonabile nella storia europea a quella odierna è tra, diciamo, il 1921 e il 1938: tra la fine della guerra russo-polacca e l’inizio dell’espansione territoriale tedesca. Quel periodo fu caratterizzato da una disperata ricerca di alleati per evitare di essere circondati o isolati, e da una grottesca e complessa danza diplomatica che coinvolse, tra gli altri, Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia, Polonia, Cecoslovacchia, Unione Sovietica e Giappone, in varie combinazioni.
Stefano Porcari: Approvato il primo scheletro di una finanziaria tutta improntata alla guerra
Approvato il primo scheletro di una finanziaria tutta improntata alla guerra
di Stefano Porcari
Presi dall’enorme mobilitazione che ha interessato il paese in questi giorni in solidarietà con la lotta palestinese e in sostegno della rottura del blocco illegale di Gaza da parte della Global Sumud Flotilla, è passato momentaneamente sullo sfondo il dibattito sull’approvazione della prossima manovra finanziaria, che si avvicina inesorabilmente con la fine dell’anno.
Giovedì, però, il Consiglio dei Ministri ha varato il Documento programmatico di finanza pubblica (o Dpfp), che ha sostituito la vecchia Nadef. La funzione è più o meno la stessa: serve a fare il punto della situazione dei conti pubblici e delle previsioni di crescita, e a dare così una cornice definita entro cui scrivere in maniera dettagliata la legge di bilancio per l’anno a venire.
Le previsioni di crescita tendenziale del PIL sono ancora più striminzite di qualche mese fa: +0,5% quest’anno, invece di +0,6%; +0,7% nel 2026 e nel 2027; +0,8% nel 2028. Il ministero dell’Economia mette però in chiaro che “tali dati si basano su stime assai prudenziali che allo stato risentono anche del contesto geopolitico internazionale“, innanzitutto dei dazi ‘amichevoli’ di Trump.
Rimane invece inflessibile la gabbia dei vincoli europei, e dunque dell’austerità imposta da Bruxelles. La spesa primaria netta, cioè quella che esclude gli interessi sul debito e componenti cicliche, è diminuita: la solerzia del governo Meloni nel tagliare spese e servizi pubblici ha fatto sì, dalla stima dello scorso aprila che lo dava al 3,3%, ora il deficit è proiettato sul 3%.
Gaetano Colonna: Lezioni dalla Palestina
Lezioni dalla Palestina
di Gaetano Colonna
Le decine di migliaia di vite umane sacrificate in Palestina non sono vite perdute. Spetta però a tutti noi il compito di dare a questo olocausto un significato durevole: valido quindi non solo per il presente ma anche per l’avvenire.
È questa la responsabilità che ci impegna tutti d’ora in avanti, se non vogliamo limitarci alle comprensibili reazioni emotive di sdegno e riprovazione: se riversati solo nelle piazze, questi sentimenti corrono infatti il duplice rischio di essere utilizzati per fini di partito, o di svanire non appena nuovamente assoggettati alla quotidianità.
La prima lezione è che, nel primo quarto del primo secolo di questo terzo millennio, è caduto dagli occhi dell’umanità intera il velo di retorica steso dalle potenze che, attraverso l’imperialismo coloniale e la vittoria in due guerre mondiali, dominano dalla fine del XIX secolo il mondo contemporaneo. Parole chiave come libertà, umanitarismo, democrazia, vengono utilizzate per santificare le guerre, per mascherare il dominio attraverso la forza — economica, tecnologica, militare e mediatica, sistematicamente utilizzata dalle grandi potenze dell’Occidente a guida anglosassone.
Da questo punto di vista, Israele non ha fatto altro che dare la dimostrazione più diretta ed evidente di questa logica, applicandola laddove è stato più facile farlo: vale a dire contro un popolo schiacciato da decenni di impiego sistematico della violenza di Stato, a ogni livello e in ogni occasione, con la complicità della potenza egemone mondiale, gli Usa, nel crescente silenzio di una Europa, sottomessa a quel dominio grazie a due spaventosi conflitti mondiali.
Norberto Fragiacomo: Joe Trump, i preveggenti “volenterosi” e l’inevitabilità del conflitto
Joe Trump, i preveggenti “volenterosi” e l’inevitabilità del conflitto
di Norberto Fragiacomo
Non abbiamo mai dubitato dell’imprevedibilità di Donald Trump, ma speravamo che, una volta in carica, si sarebbe mostrato meno aggressivo del predecessore e che non avrebbe scatenato guerre. Si trattava non di una certezza, ma di una scommessa – e salvo ulteriori colpi di scena possiamo serenamente ammettere di averla persa.
A gennaio affermai, nel corso di una puntata de il Processo del giovedì, che nei riguardi della Russia il nuovo Presidente USA avrebbe potuto assumere tre atteggiamenti alternativi: seguire il modello Biden, cioè demonizzare l’avversario e rifornire costantemente di armi l’Ucraina senza troppi clamori (tante minacce, ma di rivendicazioni manco l’ombra); porre fine al conflitto riconoscendo le ragioni dei russi e patrocinando un compromesso realistico; terza possibilità, reagire alla (pronosticabile) fermezza di Putin con un “fallo di frustrazione” e dare il via a una definitiva escalation. Trump è stato all’altezza della sua fama, perché nel breve volgere di nove mesi è riuscito a percorrere un tratto della prima strada (conferma iniziale delle decisioni già assunte dai democratici), poi a imboccare d’impeto la seconda – fino all’incontro in Alaska – e infine a invertire repentinamente la rotta, annunciando l’invio di missili a lungo raggio e il sostegno satellitare “per colpire in profondità la Russia”.
La spiegazione (più) logica dell’ultimo voltafaccia è che, a questo punto, il tycoon consideri l’uso della forza militare l’unico mezzo idoneo a imporre alla Federazione una tregua che altrimenti giammai sarebbe accettata, poiché per il presunto “aggressore non provocato” essa equivarrebbe a una sconfitta strategica.
Stefano Stella: La Palestina può svegliare l’Occidente?
La Palestina può svegliare l’Occidente?
di Stefano Stella
La questione palestinese può divenire la fiamma che risveglia le coscienze collettive occidentali?
Questa è una domanda fondamentale da porsi in una fase storica in cui la politica occidentale sembra essersi confinata in un convergere di sentimentalismi. Come riportato infatti da Zygmunt Bauman:
“Per l’individuo, lo spazio pubblico non è molto più che un maxischermo su cui le preoccupazioni private vengono proiettate e ingrandite senza per questo cessare di essere private o acquisire nuove qualità collettive; lo spazio pubblico è il luogo in cui si rende pubblica confessione di segreti e intimità privati.”
Il privatismo di matrice post-modernista tende a frammentare qualsiasi appartenenza comune, ogni forma di comunità reale e di senso di valore intersoggettivamente condiviso. Si crea quindi un “nichilismo che avanza”, un moralismo senza morale che, attraverso una retorica vittimistica ed emergenzialista, tende a sopprimere ogni forma di reale dissenso emergente. Questo abisso profondo, non bisogna farsi illusioni, è ancora estremamente egemone negli ambienti delle sinistre post-marxiste; tuttavia la questione palestinese qualche speranza la accende.
In effetti, movimentazioni di questa portata non si vedevano da decenni in Occidente e il valore umano e politico che esse rappresentano non è qualcosa che possa essere sminuito. Le manifestazioni e gli scioperi pro-Pal non sono rivoluzioni; leggerle in questo senso non può che rafforzare il potere costituito.


