Rassegna – 18/10/2025
Michael Roberts: Le frontiere del valore
Le frontiere del valore
di Michael Roberts
Güney Işıkara e Patrick Mokre hanno pubblicato un libro approfondito che spiega come la teoria del valore di Marx funzioni per spiegare le tendenze e le fluttuazioni nelle moderne economie capitalistiche. Il titolo, Marx’s Theory of Value at the Frontiers – Classical Political Economics, Imperialism and Ecological Breakdown[La teoria del valore di Marx alle frontiere – Economia politica classica, imperialismo e collasso ecologico], indica al lettore che il libro tratta della legge del valore di Marx applicata a quelle che gli autori definiscono le sue “frontiere”, ovvero i mercati e il commercio, l’imperialismo e la crisi ambientale globale.
Si tratta di un progetto ambizioso, ma gli autori riescono con grande chiarezza a spiegare come il valore (creato dalla forza lavoro umana al massimo livello di astrazione) sia modificato e mediato dalla concorrenza tra capitalisti in quelli che Marx chiamava “prezzi di produzione” (dove i tassi di profitto dei singoli capitali si stabilizzano) e dai prezzi di mercato (dove i profitti in eccesso spingono i capitalisti a una concorrenza incessante).
Gli autori, ex studenti di Anwar Shaikh, adottano la sua teoria della “concorrenza reale” in contrapposizione alla tradizionale “concorrenza perfetta”. Quest’ultima si basa su una visione della produzione capitalistica fondata su armonia ed equilibrio, mentre la concorrenza reale è [caratterizzata da] una turbolenza incessante. Questa è la concorrenza reale in azione: «antagonista per natura e turbolenta nel suo funzionamento» (Shaikh). Gli autori sostengono che questa concorrenza reale sia il principio regolatore centrale del capitalismo, ma che «qualsiasi teoria della concorrenza, inclusa la concorrenza reale, deve essere supportata da una teoria del valore. Altrimenti, la fonte dei ricavi che spettano alle diverse classi sociali (tra le altre cose) rimarrà indeterminata».
Işıkara e Mokre si sono prefissati di dimostrare la connessione logica (e storica) tra il valore creato dalla forza lavoro e i prezzi di mercato.
Emmanuel Todd: Hitlerismo, Trumpismo, Netanyahismo, Le Penismo, Macronismo
Hitlerismo, Trumpismo, Netanyahismo, Le Penismo, Macronismo
Un approccio comparativo ed espressionista
di Emmanuel Todd, emmanueltodd.substack.com
I riferimenti agli anni ’30 si moltiplicano. La degenerazione della democrazia americana sembra riportarci a quella della Repubblica di Weimar tedesca. Trump, attraverso il suo godimento della violenza e della menzogna, attraverso la pratica del male, ci riporta irresistibilmente a Hitler. In Europa, l’ascesa di movimenti classificati come di estrema destra ci costringe a rivisitare la nostra storia.
Eppure le società occidentali non assomigliano più molto a quelle degli anni Trenta. Sono vecchie, consumistiche, orientate ai servizi, le donne sono emancipate e lo sviluppo personale ha sostituito l’affiliazione politica. Qual è il legame con le società degli anni Trenta: giovani, frugali, industriali, operaie, maschili e con tessera? È questa distanza socio-storica che mi ha portato a considerare, fino a ora, a priori invalido il parallelo tra l’”estrema destra” del presente e quelle del passato. Ma le dottrine politiche esistono, oggi come ieri, e non possiamo semplicemente postulare l’impossibilità, ad esempio, di un nazismo dei vecchi, di un franchismo dei consumatori, di un fascismo delle donne emancipate o di un LGBT della Croce di Ferro.
È giunto il momento di confrontare le dottrine del nostro presente con quelle degli anni ’30. Ecco uno schema di come potrebbe apparire uno studio comparativo di cinque fenomeni storici: hitlerismo, trumpismo, netanyahismo, lepenismo. Aggiungerò brevemente il macronismo alla fine. L’estremismo centrista e filoeuropeo che sta portando la Francia al caos ci obbliga a questo esame. Questo estremismo è davvero così centrista?
Sarà un approccio impressionistico, senza alcuna pretesa di completezza o coerenza, il cui scopo è aprire strade, non concludere. Forzo linee e colori per mettere in relazione i concetti tra loro. Esagero deliberatamente, per recuperare o addirittura anticipare una storia che si sta evolvendo rapidamente. Un approccio espressionista sarebbe forse una metafora più appropriata.
Cominciamo con la dimensione generale del razzismo o della xenofobia.
Pompeo Della Posta: Dialogo sulla Cina post globalizzazione
Dialogo sulla Cina post globalizzazione
Kunling Zhang intervista Pompeo Della Posta
Kunling Zhang, un economista della Beijing Normal University, intervista Pompeo Della Posta, già professore di economia all’Università di Pisa. Il dialogo affronta i nodi dei rapporti tra Europa e Cina nella nuova fase di deglobalizzazione.
* * * *
Kunling Zhang: La deglobalizzazione non è una novità di oggi. Alcuni sostengono che i suoi primi segnali possono essere fatti risalire alla crisi finanziaria globale del 2008/09, con la contrazione del commercio mondiale e l’escalation durante la pandemia COVID-19. In base alle tue osservazioni, quali sono i fatti, i modelli e le tendenze nello sviluppo della deglobalizzazione? E quali sono le sue motivazioni?
Pompeo Della Posta: “La crisi finanziaria globale che cominciò nel 2008 può essere considerata senz’altro come uno dei possibili spartiacque che hanno segnato l’inizio del declino del processo di globalizzazione economica e, naturalmente, la pandemia COVID-19 ha ulteriormente chiuso i mercati internazionali e limitato il commercio internazionale. La guerra fra Russia e Ucraina ha poi alimentato il senso di insicurezza in molti Paesi europei (ad esempio riguardo all’approvvigionamento delle fonti energetiche), contribuendo così a deteriorare ulteriormente il quadro della globalizzazione. La differenza con l’attuale fase di slowbalization (come alcuni osservatori, probabilmente ottimisti, preferiscono definirla, piuttosto che deglobalizzazione) è che mentre quegli eventi hanno ridotto (drasticamente, nel caso del COVID-19) la possibilità stessa di intraprendere il commercio internazionale, nella situazione attuale questo è il risultato di una scelta deliberata, operata da governi populisti, solitamente di destra. Questo dimostra chiaramente che la globalizzazione non è inevitabile, come invece diceva Margaret Thatcher proponendo il suo famoso acronimo “TINA” (There Is No Alternative). Questo ci porta alla seconda parte della tua domanda.
I fattori economici hanno certamente giocato un ruolo nel determinare il cambiamento di direzione del mondo.
Libertà per Marwan Barghouti, libertà per i prigionieri politici palestinesi, libertà per la Palestina
Libertà per Marwan Barghouti, libertà per i prigionieri politici palestinesi, libertà per la Palestina
Un appello (in coda le indicazioni per aderire)
In Italia, come nel mondo intero, è vivo e forte un movimento che vuole la pace in Palestina e Israele per aprire la strada a un mondo multipolare, unica soluzione possibile contro il rischio di una catastrofica guerra generalizzata.
Ma nel coloniale “piano di pace” concordato tra Trump e Netanyahu è completamente assente il riferimento alla autodeterminazione del popolo palestinese e a una soluzione che riconosca i diritti politici dei palestinesi.
Al tavolo delle trattative mancano i palestinesi e soprattutto sono assenti le voci di coloro che potrebbero rappresentare con la loro storia l’intera comunità palestinese. Sono donne e uomini che giaccciono da più di vent’anni in galera, in condizioni disumane. Le voci che mancano di più sono quelle di Marwan Barghouti, già leader di Fatah, formazione laica e principale forza dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP), e di Amhad Sa’adat, presidente del Fronte popolare per la liberazione della Palestina, organizzazione storica della sinistra palestinese. Barghouti, in particolare, è il leader più amato dai palestinesi e gode del rispetto di tutti i partiti, fazioni e movimenti della Resistenza.
Moltissime azioni possono promuovere la pace e inceppare i meccanismi del genocidio. La Sumud Flotilla, prima, e la Freedom Flotilla, ora, hanno mostrato al mondo che è possibile rallentare la macchina di morte israeliana e svergognare la complicità di tutti i paesi che ancora sostengono Israele, con armi e appoggio diplomatico.
Fabrizio Marchi: Alcune riflessioni sulle grandi mobilitazioni per la Palestina
Alcune riflessioni sulle grandi mobilitazioni per la Palestina
di Fabrizio Marchi
Le grandi, talvolta oceaniche e molto spesso spontanee manifestazioni che si sono svolte in tutta Italia in queste settimane in solidarietà con il popolo palestinese sono ovviamente da salutare molto positivamente. Il fatto che centinaia di migliaia, milioni di persone si riversino sulle piazze per testimoniare il loro sostegno a un popolo martirizzato da un regime razzista e genocida ci dice che c’è tanta gente ancora “viva”, che esiste ancora una potenzialità e una capacità di lotta non sopita. Soprattutto perché si tratta di un tema considerato tabù fino a pochi giorni fa. Criticare infatti le “politiche” criminali dello stato sionista significava e significa in larga parte tuttora essere tacciati di antisemitismo e questo impediva e impedisce a molte persone di pronunciarsi per paura di essere scomunicate, ostracizzate, bollate, appunto, come antisemite. Le mobilitazioni di questi giorni hanno quindi segnato un passaggio importante. Oggi in tanti definiscono apertamente Israele come uno stato terrorista, lo gridano nelle piazze e, addirittura, in televisione alcuni intellettuali ed esponenti del mondo della “sinistra” si sono espressi in modo esplicito in tal senso; fino a poco tempo fa non era possibile. Ma lo hanno potuto fare proprio perché consapevoli che dietro c’è un popolo (e non solo quello di sinistra) che la pensa in quel modo. Da sottolineare anche la grandissima partecipazione alle manifestazioni e ai cortei di giovani e giovanissimi che nonostante il rincoglionimento a cui sono sottoposti da un contesto mediatico e ideologico altamente pervasivo e astuto, confermano di avere ancora una sensibilità e una coscienza critica.
Marco Cattaneo: La finanziarizzazione non è invincibile
La finanziarizzazione non è invincibile
di Marco Cattaneo
Consiglio la lettura di un libro pubblicato da pochi mesi, “Prima che tutto crolli” di Luciano Balbo (Longanesi 2025). Contiene parecchie considerazioni illuminanti e centrate sulla finanziarizzazione delle economie, cioè sul predominio dell’establishment finanziario rispetto al sistema produttivo e al sistema economico, sugli effetti negativi che ha prodotto riguardo a diseguaglianze e concentrazione della ricchezza, sul rischio che prima o poi (più prima che poi) inneschi una crisi sistemica.
Consiglio la lettura ma siccome sono un noto rompiscatole (!) segnalo il suo principale (s’intende a mio parere) difetto. Una carenza di interpretazione di alcuni temi macroeconomici, che conduce l’autore a pensare che gli Stati dipendano necessariamente dai mercati finanziari per sostenere i deficit e i debiti pubblici e che la mobilità dei capitali sottragga ai singoli governi la capacità di contrastarli (“se no scappano altrove”).
Per la verità qualche sentore che le cose non stiano esattamente così Balbo ce l’ha: cita la MMT commentando grossomodo che sembrano degli eretici ma forse, probabilmente, hanno delle ragioni. Ma è solo un sentore.
I fatti che, rispetto all’interessante esposizione di Balbo, vanno meglio compresi sono IMHO i seguenti (ben noti ai lettori di questo blog…).
UNO: il deficit pubblico non è un impoverimento del paese che lo genera ma un normale strumento di immissione del potere d’acquisto finanziario, che deve crescere di pari passo con lo sviluppo del PIL nominale.
Chris Hedges: Il piano di pace farsa di Trump
Il piano di pace farsa di Trump
di Chris Hedges* – Scheerpost
Non mancano piani di pace falliti nella Palestina occupata, tutti caratterizzati da fasi e tempistiche dettagliate, risalenti alla presidenza di Jimmy Carter. Finiscono tutti allo stesso modo. Israele ottiene inizialmente ciò che vuole – nell’ultimo caso, il rilascio degli ostaggi israeliani rimasti – mentre ignora e viola ogni altra fase fino a quando non riprende gli attacchi contro il popolo palestinese.
È un gioco sadico. Una giostra di morte. Questo cessate il fuoco, come quelli del passato, è una pausa pubblicitaria. Un momento in cui al condannato è permesso fumare una sigaretta prima di essere ucciso a colpi di pistola.
Una volta liberati gli ostaggi israeliani, il genocidio continuerà. Non so quanto presto. Speriamo che il massacro di massa venga ritardato di almeno qualche settimana. Ma una pausa nel genocidio è il massimo che possiamo aspettarci. Israele è sul punto di svuotare Gaza, che è stata praticamente annientata da due anni di bombardamenti incessanti. Non ha intenzione di fermarsi. Questo è il culmine del sogno sionista. Gli Stati Uniti, che hanno fornito a Israele la sbalorditiva cifra di 22 miliardi di dollari in aiuti militari dal 7 ottobre 2023, non chiuderanno il loro oleodotto, l’unico strumento che potrebbe fermare il genocidio.
Israele, come sempre, darà la colpa ad Hamas e ai palestinesi per non aver rispettato l’accordo, con ogni probabilità un rifiuto – vero o falso – di disarmare, come previsto dalla proposta. Washington, condannando la presunta violazione di Hamas, darà a Israele il via libera per continuare il suo genocidio, realizzando la fantasia di Trump di una riviera di Gaza e di una “zona economica speciale”, con il suo trasferimento “volontario” dei palestinesi in cambio di token digitali.
Antonio Magariello: Segnali di insubordinazione da parte di Israele?
Segnali di insubordinazione da parte di Israele?
di Antonio Magariello
Quantunque la stampa nostrana – e, a onor del vero, anche quella straniera – sovrabbondi di articoli sulla sororale relazione tra Trump e Netanyahu, salutando con giubilo in questi giorni l‘avveramento della tanto agognata, e più volte differita, pace in Palestina, a ben vedere è stato eclissato un aspetto decisivo dell’evoluzione di questo rapporto: il progressivo sbilanciamento a vantaggio del secondo e a scapito del primo.
Diversi nodi problematici erano già vistosamente emersi con la precedente amministrazione a stelle e strisce. Basti pensare per esempio ai duri e accorati – rivelatisi poi del tutto inefficaci – ammonimenti che Biden aveva rivolto a Netanyahu, sperando di dissuaderlo dal varcare la “linea rossa” rappresentata da Rafah; oppure alla ridicola minaccia americana di non fornire bombe di grandi dimensioni, cui ha fatto seguito la replica secca del primo ministro: “se necessario combatteremo da soli e con le unghie”.
Con la vittoria presidenziale di Trump, il quale aveva proclamato durante la sua campagna elettorale di portare a termine tanto la guerra russo-ucraina quanto il massacro palestinese (da questi eufemisticamente definita guerra contro Hamas), pareva configurarsi uno spazio, sebbene difficile e con molti caveat, per la trattazione quanto meno di una tregua all’immane eccidio in Medioriente.
Mohammad al-Ayoubi: Nessun governo senza la resistenza: il futuro di Gaza nel dopoguerra e il crollo delle illusioni straniere
Nessun governo senza la resistenza: il futuro di Gaza nel dopoguerra e il crollo delle illusioni straniere
di Mohammad al-Ayoubi, thecradle.co
Mentre le potenze occidentali promuovono la tecnocrazia a scapito della sovranità, i movimenti di resistenza palestinesi avvertono che non può esserci ricostruzione senza liberazione
All’indomani della devastante guerra a Gaza, la domanda più urgente non è più quella di un cessate il fuoco o della ricostruzione, ma di chi governerà l’enclave.
Si tratta di una lotta per il significato, la legittimità e la sovranità. Il futuro di Gaza sarà plasmato dalla sua gente o dalle stesse potenze straniere che hanno contribuito a distruggerla sotto la bandiera della “salvezza”?
Ogni volta che si aprono le porte della “ricostruzione” e degli “aiuti”, le finestre della sovranità vengono chiuse di colpo. Ciò che si palesa è uno spettacolo coloniale ricorrente: un ordine politico palestinese rimodellato sotto la supervisione straniera, dove il “realismo politico” viene promosso come sostituto della giustizia e la “tecnocrazia” viene commercializzata come una sterile alternativa alla resistenza.
Il giorno dopo
Ayham Shananaa, un alto funzionario di Hamas, ha dichiarato a The Cradle che l’esito della guerra non può essere misurato secondo gli standard dei tradizionali conflitti tra stati, ma deve essere inteso come “una lotta esistenziale tra un popolo in cerca di liberazione e un’occupazione sostenuta dall’Occidente”.
Egli sostiene che la sopravvivenza stessa di Hamas nell’arena politica dopo due anni di guerra costituisce una vittoria strategica, poiché Israele non è riuscito a raggiungere i suoi obiettivi dichiarati, nonostante un sostegno internazionale senza precedenti.
Alberto Toscano: Colonialismo accelerato: un piano contro la Palestina
Colonialismo accelerato: un piano contro la Palestina
di Alberto Toscano
Qual è la logica del piano Trump su Gaza? La costruzione di spazio meticolosamente controllato e depoliticizzato, cioè pacificato, per la circolazione, il consumo e la produzione del capitale. Come spiega Alberto Toscano nell’articolo che pubblichiamo oggi, la creazione della «Nuova Gaza» servirebbe a trasformare la Striscia nel «centro dell’architettura regionale filoamericana», assicurando potere economico, politico e militare sul flusso di energia, capitale e merci. Un’operazione che integra il genocidio in corso in un disegno neocoloniale più ampio e lo rende funzionale al nuovo regime di accumulazione primitiva.
Così, per Trump, Netanyahu e Blair, «a Gaza si può costruire una riviera solo sulle ossa dei morti».
* * * *
Questi predoni del mondo, dopo aver distrutto la terra con le loro devastazioni, stanno ora saccheggiando l’oceano: spinti dall’avidità, se il loro nemico è ricco; dall’ambizione, se è povero; insaziabili tanto verso l’Oriente quanto verso l’Occidente: l’unico popolo che contempla la ricchezza e la miseria con la stessa bramosia. Saccheggiare, massacrare, usurpare con falsi titoli — questo lo chiamano impero; e dove fanno un deserto, lo chiamano pace.
Tacito, Agricola
Ciò che è bello di Gaza è che le nostre voci non la raggiungono. Nulla la distrae; nulla le toglie il pugno dalla faccia del nemico. Non le forme dello Stato palestinese che costruiremo, fosse anche sul lato orientale della luna o sul lato occidentale di Marte, quando sarà esplorato.
Mahmoud Darwish, Silence for Gaza
Alessandra Ciattini: Trump e l’idea della guerra come valore
Trump e l’idea della guerra come valore
di Alessandra Ciattini
Le inquietanti dichiarazioni fatte dal presidente Usa e dal segretario Pete Hegseth a Quantico ripropongono una pericolosissima concezione della guerra, che nel corso di secoli il diritto internazionale aveva tentato di superare. Inoltre, ancora una volta presentano come invincibili le forze militari Usa, quasi assimilate ai protagonisti delle pellicole commerciali hollywoodiane, nonostante la stessa intelligence riconosca la loro inferiorità in vari campi.
È oggi assai difficile comprendere se tutta l’aggressività presente nei discorsi di Trump, definito da qualcuno “il buffone apocalittico”, o di Pete Hegseth, ora segretario del meno ipocrita Dipartimento della guerra, sia solo frutto di un bluff o se riveli una qualche folle concretezza o consistenza. Certamente si vuole impressionare e terrorizzare con metodi diversi da quelli dei cerimoniali nazisti costellati da lugubri svastiche su fondo rosso, con le coreografie elaborate dall’architetto Albert Speer; metodi che sono la volgare secrezione della rozza cultura di massa televisiva e cinematografica di matrice statunitense. Certamente si vuole convincere il pubblico con un pugno allo stomaco che gli Usa sono sempre forti, battendo i piedi e strepitando, come fanno i bambini quando non vengono presi in considerazione. Probabilmente uno psicoanalista direbbe che tutta la retorica bellicista, strombazzata nella mega riunione di generali e ammiragli a Quantico (Virginia), serve anche a persuadere gli stessi parlanti che sono invincibili, pur essi costatando contraddittoriamente nello stesso tempo che il loro esercito è in decadenza, che bisogna far rinascere lo spirito guerriero, che evidentemente è scemato, anche se non per colpa loro.
Per comprendere se effettivamente tutta questa retorica bellica, che giunge a prospettare una guerra senza limiti in un mondo in cui solo il più forte ha ragione, occorrerebbe capire fino a che punto le minacce lanciate in questi insoliti consessi, in cui ci si attende anche di essere applauditi, abbiano una base concreta, se per esempio la Russia è effettivamente una “tigre di carta”, proverbiale espressione impiegata da Mao Zedong per definire i nemici reazionari della Cina e che stranamente il presidente Usa ha evocato, forse non sapendo chi stava citando.
Barbara Spinelli: La “Succession” parigina: Macron punta sul caos
La “Succession” parigina: Macron punta sul caos
di Barbara Spinelli
A prima vista sembra inspiegabile, la testardaggine capricciosa con cui Emmanuel Macron sforna un primo ministro dopo l’altro – l’ultimo è Sébastien Lecornu, fedelissimo, incaricato ben tre volte – pur di non ammettere l’evidenza: i partiti di centro che lo sostengono sono sempre più striminziti, la sua politica è stata sconfitta alle elezioni del giugno 2024, le ore del suo soggiorno all’Eliseo sono contate. Lunedì Lecornu spiegherà quel che l’Eliseo vuole e concede, ma presto cadrà anche lui, come i due premier (Michel Barnier, François Bayrou) che l’hanno preceduto. Invece la testardaggine e i capricci sono spiegabili. Se Macron resta abbarbicato al potere è perché non vuole in alcun modo che le proprie scelte neoliberiste vengano disfatte: in particolare la scelta di proteggere dal fisco le grandi ricchezze e la riforma delle pensioni che gli elettori di estrema destra e di sinistra respingono, chiedendone una più giusta.
Macron è “solo davanti alla crisi”, affermano giornali e reti tv, ma così solo non è. Lo appoggiano i grandi patrimoni, le multinazionali, le imprese raggruppate nella confindustria francese (Medef). È a loro che Macron promette regali fiscali da quando fu eletto nel 2017. Con loro si identifica, mentre la sua popolarità crolla al 13-14%.
Il dramma Succession è iniziato e nessun candidato presidente vuol essere contaminato dal macronismo, anche se sono rari quelli se ne discosteranno davvero.
Alessandro Volpi: Chi comanda (veramente) in Europa
Chi comanda (veramente) in Europa
di Alessandro Volpi*
Chi comanda in Europa. In Germania, BlackRock ha partecipazioni, sia direttamente sia attraverso fondi posseduti, comprese fra il 3 e il 10% in Commerzabank, Deutsche Bank, Continental, Adidas, Bayer, Lufthansa, Sofran, Daimler, Ag, Basf, Allianz, Siemens, Thyssen Krupp, Muniche Re, Rheinmetall, Hensholdt. A questo complesso di partecipazioni si aggiunge una lunga lista di azioni possedute, al di sotto della soglia del 3%, in numerosissime altre società tedesche, a partire dal settore del credito e delle assicurazioni. In Francia, la società guidata da Larry Fink detiene pacchetti azionari, di nuovo fra il 3 e il 9%, in Sanofi, TotalEnergies, Lvhm, Schneider Electric, Société Générale, Orpea.
Anche qui, come in Germania e in Italia, BlackRock possiede partecipazioni inferiori alla soglia del 3% in numerosissime società francesi, con una significativa incidenza nel comparto bancario. In Inghilterra, la società americana gestisce una serie di fondi UCITS domiciliati nell’isola, che contengono importanti partecipazioni di società inglesi, mentre registra una presenza azionaria diretta in Shell, in Netwest group e in Preqin. Le partecipazioni in Spagna di BlackRock sono concentrate nel sistema bancario, in Bbva, Banco Sabadell, Banco Santander, Caixa Banca, dove il capitale posseduto oscilla fra il 6 e l’8%, e in una serie di altri settori ambiti dove la quota posseduta è superiore al 5%, da Iberdola, a Repsol, Enagas, Redeia, Telefonica, Grifols, Fluidra, Merlin e AM-Deus.
Paolo De Prai: 7 ottobre 2023 e altre narrazioni fasulle
7 ottobre 2023 e altre narrazioni fasulle
di Paolo De Prai
Continuamente i tg main-stream inondano la loro narrazione mettendo sullo stesso piano il genocidio dei gazawi (miserabile chi lo nega) con i 1.138 morti del 7/10/23.
Dal momento che non sono minimamente d’accordo su questa narrazione, procedo a fare un minimo di chiarezza.
La prima cosa da rimarcare è che quel giorno non è successo niente di particolarmente strano – se non nelle dimensioni – perché nei 15 anni precedenti lo stato sionista aveva sterminato 6.085 palestinesi e ne aveva rapiti oltre 8mila, chiamandoli “arresti amministrativi”.
Quel giorno sono avvenuti due eventi contemporanei e opposti: il primo condotto dalla resistenza palestinese a guida Hamas (in coda faccio una ulteriore riflessione), azione che mirava a rompere l’isolamento dei palestinesi stritolati lentamente dallo stato sionista con in vista gli “accordi di Abramo” che dovevano rendere definitivamente invisibili ed eliminati nel tempo i palestinesi, il secondo evento è stato l’inizio della guerra per la “grande Israele”.
Questa azione militare sionista è stata organizzata da molto tempo e aspettava solo il momento giusto per attuarla, preparazione dimostrata sia da come i sionisti preparano le loro azioni terroriste (cerca-persone e walkie-talkie che ha richiesto almeno 4 o 5 anni di preparazione).




