“E’ possibile uscire dalla palude italiana?”

Se distogliamo l’attenzione dal teatrino quotidiano e cerchiamo di interpretare meglio le caratteristiche della situazione italiana dobbiamo prendere atto che essa evolve a senso unico. Va sempre più a destra, nonostante che siamo in presenza di acute contraddizioni sociali e politiche.

 

E’ POSSIBILE USCIRE DALLA PALUDE ITALIANA?

Appunti per una discussione necessaria

 

Se distogliamo l’attenzione dal teatrino quotidiano e cerchiamo di interpretare meglio le caratteristiche della situazione italiana dobbiamo prendere atto che essa evolve a senso unico. Va sempre più a destra, nonostante che siamo in presenza di acute contraddizioni sociali e politiche. Se si può fare un paragone, dobbiamo figurarci una zattera trascinata dalla corrente in cui i rematori si illudono di andare in senso opposto, ma a decidere il senso della marcia non sono loro.

Per capire quindi queste contraddizioni dobbiamo liberarci dal fumo delle rappresentazioni taroccate e andare alla sostanza delle cose. La scena è occupata come sappiamo da un acuto scontro tra le forze parlamentari che hanno in mano il potere e quelle che vogliono sostituirle alle prossime elezioni, tra queste ci sono anche i gruppi emergenti, quelli che si sono scissi dal PD, e i cinque stelle.

Lo scontro è feroce. La sostanza delle alternative però non può mutare il quadro della situazione. E cerchiamo di vedere il perchè.

La destra, controllata dal moderatore Berlusconi, si sta riorganizzando utilizzando anche la crisi del renzismo in attesa che le forze che contano decidano di investirla di nuovo della responsabilità di governo. L’ipotesi, non improbabile, è anche la variante di un governo consociativo tra destra e PD.

Il PD renziano lotta disperatamente per mantenere la leadership governativa e nuota ovviamente in un’area tutta moderata e concorrenziale alla destra sul terreno economico, istituzionale e di amministrazione del potere. E’ solo la vernice che cambia, ma questa serve a vendere a settori della sinistra moderata l’idea che tra Berlusconi e Renzi ci sia una differenza, mentre ci si trova in presenza di un Giano bifronte. Si tratta di due destre.

In questo contesto che cosa ha prodotto la scissione del PD? Certamente il fatto positivo è che ha indebolito Renzi nella sua corsa alla rivincita dopo il referendum del 4 dicembre. Nella sostanza però la scissione non presenta caratteristiche di novità, e non poteva essere altrimenti, dal momento che i suoi protagonisti rimangono nel solco della tradizione riformista che assume come propri i capisaldi dell’occidente capitalistico, dall’UE alla NATO con le sue guerre, all’economia mondializzata che ne esprime il carattere imperialista.

Gli scissionisti del PD e la coalizione che gli ruota attorno hanno dunque un destino già predesignato e devono fare i conti non solo con le contraddizioni interne che potrebbero essere fatali, ma anche con il carattere limitato dell’area politica a cui si rivolgono. La scissione del PD avviene in un tessuto molto logorato della sinistra. Non ci sono più le grandi masse formate dalla cultura e dalla tradizione del PCI, bensì i circoli abbastanza ristretti di un ceto politico che non ha accettato il partito di Renzi, il PDR, ed è rimasto legato all’impostazione ulivista e prodiana.

L’opposizione di massa oggi in Italia è rappresentata dal non voto e dai cinque stelle. La grande sinistra è evaporata. La mutazione genetica non riguarda solo le strutture politiche e il PD, è la base oggettiva che è cambiata. Nel PD e nella sua area non possono esserci dunque che valori collegati all’attuale sistema di potere. L’antagonismo con gli altri è solo elettorale.

In campo, sul versante dell’opposizione, sono rimasti il non voto e il movimento cinque stelle. La massa dei non votanti è aumentata costantemente e, nonostante la rimozione mediatica, è una bomba ad orologeria pronta a minare gli equilibri istituzionali. Purtroppo la miopia degli ‘antagonisti’ di sinistra ha impedito che il non voto fosse utilizzato in modo attivo e con un programma di riferimento sulle questioni sociali, sulla partecipazione dell’Italia alle guerre imperialiste, sulla corruzione del potere. Non un astensionismo ideologico, ma una forma organizzata e intelligente di opposizione politica. L’idea di un astensionismo programmatico non ha neppure sfiorato gli ‘alternativi’ di casa nostra.

Per quanto riguarda i cinque stelle bisogna uscire dal carattere strumentale delle valutazioni che ne vengono fatte e saperne definire invece la natura e il loro futuro. A sinistra, nella denigrazione dei cinque stelle prevale il carattere concorrenziale, soprattutto elettorale, delle critiche. I cinque stelle, con il loro successo, liquidano decenni di insuccessi della sinistra che si definisce di alternativa, che è stata incapace di avere un programma aderente alla situazione e di portarlo avanti con coerenza, da Rifondazione in poi. Per questo indigna la malafede di chi, a sinistra, partecipa alla denigrazione dei cinque stelle, aldilà di ogni giusta valutazione del loro operato.

Sui cinque stelle bisogna rispondere a due domande: perchè essi hanno avuto elettoralmente un grande successo, al punto di diventare il primo partito o quasi, e quale cambiamento potrebbe esserci in caso di loro vittoria elettorale.

I risultati dei cinque stelle non hanno un carattere ideologico e di schieramento. Il movimento grillino ha avuto la capacità di captare in modo trasversale la rabbia che montava dentro la crisi economica che macinava certezze acquisite, impoveriva non solo il lavoro dipendente, ma anche ceti sociali diversi che non trovavano più possibilità di mantenere uno status sociale e un inserimento nel circuito produttivo. Coi cinque stelle si ripeteva un fenomeno che stava investendo tutta l’Europa colpita dalla crisi e dall’austerità di Bruxelles, anche se con modalità di espressione diverse. Dalla Grecia, alla Francia, alla Spagna, oltre che ovviamente all’Italia. Dunque il grillismo è figlio di una crisi europea e di una reazione non necessariamente di ‘sinistra’ di ceti che si ritrovano fuori dai circuiti tradizionali del sistema e ne sconvolgono gli equilibri. La base di partenza di questo fenomeno che viene definito populista è sostanzialmente la stessa nei vari paesi europei, ma la forza, come anche la colorazione politica, è differenziata.

Che cos’è dunque in Italia il movimento cinque stelle dal punto di vista del programma e cosa può cambiare? Se analizziamo il programma più recente [qui] viene fuori un’immagine di un movimento progressista che vuole modificare i comportamenti corrotti di gestione del potere, modificare in alcuni punti il modello economico cambiandone la natura iperliberista, cambiare l’approccio alla questioni internazionali (rapporto con la Russia e medio oriente). Insomma un programma che gestito comunque al di fuori di logiche politiciste ha sicuramente punti interessanti di convergenza con idee di sinistra e progressiste. Nonostante questo i cinque stelle sono, per la sinistra di varia estrazione, il nemico da battere.

Certamente il movimento cinque stelle non è strategicamente stabilizzato e ci dovremo aspettare conversioni di vario genere (legaliste ad esempio), ma finchè esso manterrà il rapporto con la rabbia sociale, continuerà a premere contro la rappresentanza istituzionale delle due destre e contro una sinistra evanescente. In questo sta il ruolo importante del movimento.

* * *

La situazione italiana non si può però definire partendo dalle relazioni esistenti nello scenario politichese del paese. A nostro parere, nel definire un progetto politico, bisogna partire da ciò che sta avvenendo nell’area imperialista occidentale da cui scaturiscono i principali avvenimenti odierni e soprattutto gli scenari futuri.

Dopo la grande affermazione del sistema imperiale americano sull’URSS, le cose sono andate diversamente da come i ‘vincitori’ avevano previsto. Lungi dal realizzare il sogno americano di un mondo a stelle e strisce, quelli che dovevano essere i punti di forza di un nuovo millennio americano si sono sgretolati sotto l’incalzare delle nuove contraddizioni che portano il nome di ridimensionamento dell’area di influenza USA ad opera di una Russia che si rafforza, di una Cina che non smette di crescere e di un fallimento mediorientale da cui è nato, nonostante l’intervento americano e NATO, il grande fronte del rifiuto (Libano, Iran, Siria principalmente) e il ruolo militare russo nell’area.

A che cosa porta tutto questo? L’imperialismo si dimostra ancora una volta tigre di carta, ma la sua sconfitta non avviene senza provocare ulteriori tragedie. Oggi, gli USA e il blocco imperialista occidentale certamente non riescono ad avere una strategia dopo il fallimento delle guerre infinite che avrebbero dovuto esportare la democrazia e consolidare il loro dominio, ma l’assenza di questa strategia può essere la causa dei nuovi disastri. La vicenda coreana è emblematica. Pressati dall’audacia degli avversari, la guerra rimane l’ipotesi a cui ricorrere basandosi sulla certezza del proprio enorme potenziale militare.

In altri termini la guerra è all’ordine del giorno.

L’Italia sta dentro fino in fondo a questo meccanismo di guerra. Ci sta perchè condivide con gli americani che guidano la NATO la strategia di provocazione e di contenimento degli avversari e ci sta perchè deve trovare il suo tornaconto. Anche l’imperialismo straccione vuole la sua parte. E questo lo si sta verificando con la Libia dove, sulla pelle di libici e migranti, si gioca un progetto neocoloniale in collaborazione ‘concorrenziale’ con gli altri comprimari dell’Italia.

La sconfitta dell’operazione enduring freedom si accompagna alla crisi economica che dal 2008 è esplosa con la bolla immobiliare. Questa esplosione era solo la punta di un iceberg di una più vasta dinamica che il ciclo capitalistico stava attraversando.

Di che cosa si trattava in sostanza? A emergere nell’immediato sono stati gli effetti della finanziarizzazione dell’economia, il distaccarsi cioè della dinamica del profitto dalla base produttiva e la ricerca di altre vie per estorcerlo. Ma le contraddizioni si sono via via andate acutizzando per effetto della mondializzazione che non aveva solo dinamiche finanziarie, bensì anche di organizzazione del ciclo produttivo su scala internazionale modificando sia la dislocazione della produzione che il livello di concorrenzialità tra i diversi soggetti della competizione.

Il contraccolpo lo si è avuto proprio nell’area dell’occidente capitalistico in termini di crisi di interi comparti produttivi e di peggioramento della condizione sociale dei lavoratori e dei ceti non operai macinati dalla crisi.

Disoccupazione, precariato, bassi salari, peggioramento del welfare, povertà sono diventati le piaghe dell’opulento occidente capitalistico e hanno avuto anche riflessi politici profondi. A partire dagli Stati Uniti. L’ascesa di Trump con lo slogan America first stava a significare che se la mondializzazione favoriva i settori avanzati dell’economia americana, nel contempo metteva in crisi altre parti della società che il nuovo presidente ha voluto rappresentare scompaginando il gioco dei democratici obamiani tutti orientati per la mondializzazione.

Anche l’Europa ha subito i contraccolpi della crisi e l’UE è stata l’epicentro di uno scossone che ne ha minato la stabilità e la credibilità. Solo che l’Europa aveva ed ha tutt’ora un problema in più rispetto agli americani, deve mantenersi infatti a galla di fronte a giganti come la Cina e la Russia e alle prese con una difficoltà di coesione dei paesi membri.

In Europa in particolare crisi economica e crisi sociale hanno messo in moto forze centrifughe che minano la stessa esistenza dell’UE.

* * *

La situazione italiana, aldilà dunque della farsesca rappresentazione che ne danno i personaggi della politica, è coinvolta fino in fondo nella crisi della mondializzazione e nelle prospettive di guerra. Solo che la consapevolezza di essere in questa condizione non trova una espressione politica organizzata che si confronti col livello delle contraddizioni. Domandiamoci dunque il perchè di questo fatto.

A monte troviamo la crisi del movimento comunista. Questa crisi ha creato un vuoto che non è stato fino ad ora colmato e non poteva esserlo per ragioni principalmente oggettive. Difatti, nonostante le caricature partitiche dei gruppi antirevisionisti, la ripresa di un partito di classe e internazionalista non poteva che basarsi sulla elaborazione di punti strategici e rapporti sociali (di classe) solidi. Il crollo del PCI e la contemporanea trasformazione del tessuto operaio, piegato dalle ristrutturazioni e dalla precarizzazione, dalla mondializzazione della struttura produttiva, dalla trasformazione dei sindacati in organismi concertativi e di regime, ha impedito che si formasse una alternativa che avesse la maturità e i legami sociali in grado di raggiungere un livello di credibilità adeguato e quindi potesse agire da punto di riferimento per i settori sociali interessati all’alternativa.

Ciò che è nato dopo il PCI invece è stato un caravanserraglio di piccoli raggruppamenti, di teorizzazioni improvvisate e soprattutto di acquisizione di posizioni di derivazione post-sessantottina che non possono rappresentare una base per la ripresa, ma che spesso la ostacolano con la pratica rissosa e la mancanza di analisi corrette.

A questo punto dunque dobbiamo porci alcuni interrogativi di fondo e provare a dare delle risposte. Intanto sulla situazione oggettiva. Seppure le contraddizioni che si sono aperte sono grandi, ci sono in Italia le basi per una riorganizzazione a breve delle forze di classe, antimperialiste e di tendenza comunista? E’ praticabile dunque una ipotesi di questo tipo che non sia solo di pura testimonianza?

Su questo, il pessimismo è giustificato perchè all’orizzonte non si vede qualcosa che vada in questa direzione. L’acuirsi delle contraddizioni e le prospettive di guerra rischiano di trovarci assolutamente impreparati e con l’affermarsi di soluzioni di destra. Non dimentichiamoci che l’Italia è anch’essa coinvolta fino al collo con le avventure militari a guida americana. A fronte di questo dobbiamo registrare che c’è un’enorme regressione del movimento antimperialista e contro la guerra, che anzi oggi è praticamente inesistente nonostante ciò che sta accadendo nel mondo dove peraltro le truppe italiane sono dislocate ed agiscono.

La questione non è solo di mobilitazione, ma anche di orientamento. La pressione mediatica dell’imperialismo, facendo leva sulle questioni umanitarie e sulla demonizzazione dell’avversario, ha condizionato anche ampi settori di gente che sarebbe certo contro la guerra, ma che vive la situazione in modo confuso. Si arriva così alla situazione odierna in cui i Curdi vengono esaltati nonostante siano intruppati dagli americani. Assad e la Siria che sono l’obiettivo principale degli USA, della NATO e degli israeliani e un punto di forza decisivo del contrasto al piano americano in medio oriente, vengono, nel migliore dei casi, ignorati. Non solo nessuna solidarietà antimperialista, ma la ripetizione di quello che avvenne al momento dell’aggressione contro la Libia, quando davanti all’ambasciata si ritrovarono noti esponenti della sinistra a protestare non a favore di Gheddafi, ma contro. Quello che è stato un tempo il potenziale del movimento contro la guerra oggi si divide tra una aperta posizione filoimperialista che riduce tutta la questione al problema umanitario dei profughi e una parte velleitariamente pacifista che non comprende la dinamica dello scontro e non sa individuare un percorso di lotta antimperialista. E questo condiziona ovviamente anche la crescita delle forze antagoniste.

Se la questione internazionale induce al pessimismo anche lo sviluppo interno dello scontro di classe evidenzia lacune molto grandi. Alcune dipendono dalla trasformazione delle condizioni oggettive, ma altre sono collegate all’orientamento dei gruppi organizzati della sinistra e in particolare quelli che agiscono nel sindacalismo di base.

La condizione di classe in Italia è caratterizzata dalle conseguenze delle politiche macroeconomiche ferocemente classiste che, con la sostanziale copertura dei sindacati di regime, a partire dagli anni ’80 si sono abbattute sui lavoratori in termini di licenziamenti, precarizzazione, riduzione del potere contrattuale. Rispetto a questo c’è stata anche una reazione di massa, che si è espressa col sindacalismo di base sia nel settore pubblico che in quello privato. Ma reggere di fronte all’attacco alle condizioni di vita dei lavoratori si è dimostrato tutt’altro che facile, e sulle possibilità di resistenza pesano anche le incognite della limitazione del diritto di sciopero e del diritto di rappresentanza. Si può partire dalle esperienze del sindacalismo di base per stabilire una linea di resistenza e definire una strategia di classe? Su questo interrogativo abbiamo aperto la discussione e avanzato proposte [qui]. Vedremo.

Se prospettive di guerra e possibilità di organizzare i lavoratori su una linea di classe e antimperialista sono gli elementi che pongono la necessità della ricostituzione di un partito ‘con caratteristiche comuniste’ (parafrasando così i cinesi), occorre però sciogliere il nodo del tipo di organizzazione politica che sia in grado di operare nel contesto attuale dandogli una fisionomia adeguata alla situazione e un indirizzo strategico reale. L’indirizzo strategico, per intenderci, non è dato dalle parole, ma dalla corrispondenza dell’analisi ai risultati.

La risposta semplicistica che finora è stata data è quella della ricostituzione di un partito comunista anzi, del partito comunista. Ma l’esperienza ci insegna che non basta il nome, ma bisogna capire soprattutto come si riprende un cammino comunista. La storia di questi anni qualcosa dovrebbe insegnarci. Non solo la storia della vicenda dei gruppi m-l, ma anche quella che sembrava più promettente e che è naufragata con Bertinotti e Cossutta lasciando galleggiare relitti che si definiscono partito comunista. Noi ci eravamo misurati con queste questioni già nel 1994 ponendo degli interrogativi (vedi il testo di Aginform riprodotto [qui]). Ora se vogliamo proporre una ipotesi dobbiamo aggiornare quell’analisi e dare delle risposte.

Problemi teorici, rapporti con la classe di riferimento, tattica e strategia di un partito rivoluzionario, sono questi gli elementi su cui ragionare per capire i passaggi pratici che portano al partito di cui oggi sentiamo la necessità. Di questo dibattito non v’è traccia, mentre i rottami di comunismo che ancora galleggiano nella palude italiana giocano ancora ad improvvisare, confondendo il cosiddetto movimento con il movimento di classe e le pratiche politichesi con lo sviluppo di forze rivoluzionarie autentiche.

Analizziamo dunque i tre nodi che bisognerebbe affrontare per tracciare un percorso.

La questione teorica. Per definire una strategia di un partito comunista (rivoluzionario) occorre partire da una valutazione corretta delle questioni che sono emerse in questi decenni: la controrivoluzione in URSS e nell’Est europeo e le sue conseguenze; lo sviluppo della Cina e del socialismo ‘con caratteristiche cinesi’ e il suo peso nelle prospettive del movimento comunista; la grande crisi dell’occidente capitalistico che ha posto all’ordine del giorno le guerre. Su queste cose occorre andare a fondo perchè sono la chiave di lettura della nuova epoca e ne definiscono i dati più rilevanti.

Il giudizio sulla controrivoluzione in URSS ed Europa orientale attiene alla capacità dei comunisti di interpretare il modo in cui si è svolto lo scontro di classe nei vari scacchieri fino al crollo dell’URSS, come hanno agito i comunisti in quelle circostanze e perchè sono stati sconfitti. Nella formazione di una organizzazione comunista non si può prescindere dalle risposte su queste questioni che fino ad oggi sono rimaste sostanzialmente prerogativa di una sinistra anticomunista. Noi abbiamo sostenuto che per discutere di questo non si può prescindere da Stalin e dalla grande funzione che egli ha avuto nel movimento comunista. Per approfondire questa cosa ci siamo impegnati nel lavoro dell’Associazione Stalin [qui].

Nel caso della Cina si tratta di capire invece come la ‘vecchia talpa’ sia riuscita a scavare e riemergere con forza e quali nuove contraddizione produce il ‘socialismo con caratteristiche cinesi’, non solo nelle relazioni internazionali e con l’imperialismo, ma anche al suo interno. Finora la questione è stata trattata prevalentemente in termini geopolitici (il peso della Cina nel mondo) o con la riesumazione di atteggiamenti fideistici sul nuovo corso.

Nel contempo, la grande questione epocale che sta di fronte ai comunisti è quella di misurarsi con la contraddizione lacerante che si è aperta nel mondo coll’imperialismo a guida USA e in che termini organizzare una seria risposta antimperialista che non sia solo affidata ai missili. Non si tratta, di fronte alla drammaticità della situazione, di illudersi che parlando di politica come fanno i pacifisti da salotto e i bertinottiani si possa dare un serio contributo alla lotta per la pace, ma di mettere all’ordine del giorno la partecipazione di massa alla lotta contro le guerre e contro i governi imperialisti che le gestiscono.

E’ da come verranno affrontati questi problemi che si deciderà se i comunisti anche in questo 21° secolo agiranno da protagonisti, abbandonando il letargo in cui la controrivoluzione kruscioviana e il riformismo occidentali li hanno gettati. In altri termini la forza del movimento comunista dipenderà da come verrà tracciata una linea strategica che sia la sintesi delle questioni poste dalla nuova epoca e alla quale i singoli partiti e organizzazioni comuniste devono necessariamente riferirsi nella loro azione e nei loro programmi.

Rapporti con la classe di riferimento. E’ illusorio pensare che in Italia si possa ricostruire una organizzazione comunista che non sia basata sul tessuto di classe. Non basta essere di sinistra, bisogna essere comunisti per intendere questa questione. E sopratutto non bisogna darne una versione retorica e cartacea. La vecchia questione delle presunte avanguardie comuniste che si ripropongono alla classe operaia come riferimento per il socialismo è dimostrato che non funziona. E non funziona per due motivi. Primo perchè le vicende a partire dal XX congresso fino al crollo del socialismo all’Est hanno creato una sfiducia profonda verso la parola comunista, col contributo peraltro dei rifondaroli. Secondo, perchè le cose bisogna guadagnarsele assumendosi la responsabilità di un percorso concreto e dimostrando la correttezza della strategia (e della tattica ad essa collegata). Solo il sindacalismo di base, in questo contesto, ha rappresentato una novità e potrebbe rappresentare un punto di partenza per ricominciare nonostante le debolezze e le deformazioni che ha dovuto subire.

Per quanto ci riguarda è a partire dagli anni ’70 del secolo scorso che con l’OPR (organizzazione proletaria romana) e con la fondazione delle RdB (rappresentanze sindacali di base) abbiamo tentato un percorso nuovo, fuori dal velleitarismo gruppettaro. Questo percorso ha trovato dei riscontri, ma anche forti ostacoli, con gli avvenimenti dell’89 e con la misera fine di Rifondazione comunista che avrebbe dovuto essere un riferimento per tutti i comunisti e invece si è dimostrata un ricettacolo di anticomunisti e di arrivisti. Questo ha anche permesso a un gruppo di voltagabbana di sciogliere l’OPR e appropiarsi delle salmerie per finire in braccio al trotskismo.

Comunque l’interrogativo, aldilà delle vicende ‘storiche’, rimane lo stesso: abbiamo ancora la forza oggettiva e la capacità soggettiva di ritentare?

Stategia e tattica di un percorso. Ricominciare significa partire e trasformare l’esistente individuando gli obiettivi di fase e la tattica di gestione di questi obiettivi. Intanto una questione essenziale. Nessuno si illuda che si possa andare avanti se non cresce una forza di classe che prenda coscienza, attraverso la difesa dei propri interessi, del ruolo politico che deve svolgere. Quando si parla di organizzazione non si può prescindere da questo.

Uscire dalla palude quindi, dove galleggiano gruppi e gruppetti, non è possibile se non con un nuovo protagonismo sociale che superi il modo in cui finora si è espresso quello che si è autodefinito antagonismo sociale, che nei fatti è stato un meticciato sociale in cui ha prevalso il modo di esprimersi di un ceto intermedio miope e in vena di protagonismo senza un’analisi decente della situazione.

Il cambiamento di passo dunque diventa preliminare per un passaggio qualitativo nel contesto italiano. Ma questo non significa affatto che il nostro compito di ricostruzione si possa limitare solo alla riorganizzazione di un tessuto di classe che stabilisca la linea del fronte nel rapporti tra lavoratori e padronato. Bisogna anche che la ricostruzione avvenga su un terreno politico generale dove lo scontro è con la politica dei governi borghesi e con le questioni internazionali relative alla guerra e all’UE. Dovremmo dunque unire le lotte alla capacità politica di gestirle dentro un contesto molto più articolato, ma questo comporta un salto qualitativo che non può avvenire se non cresce il livello e la maturità.

I tempi sono stretti e bisogna lavorare bene e non bisogna dare per scontato il risultato. Quello che conta ora è la lucidità con cui si perseguono gli obiettivi. I conti si faranno in corso d’opera.

Aginform
settembre 2017

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