“Così i politici «lottizzeranno» anche i palinsesti”

Invece di fare il fatidico passo indietro, come richiesto da più parti, la politica si appresta ancora una volta a fare un passo avanti per il completo controllo della Rai.

 

I direttori di rete saranno retrocessi a semplici passacarte

 

 

Invece di fare il fatidico passo indietro, come richiesto da più parti, la politica si appresta ancora una volta a fare un passo avanti per il completo controllo della Rai. Ai partiti non basta nominare il Cda, indicare il direttore generale e i direttori di rete, entrare nel merito della scelta di uomini e programmi; no, bisogna fare di più, qualcosa che assomiglia molto a una censura preventiva.

L’onorevole Alessio Butti del Pdl ha redatto un testo per la commissione di Vigilanza che, se venisse approvato, cambierebbe il volto della nostra tv pubblica. L’idea di fondo è questa: la commissione parlamentare per l’indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi (l’organo che vigila sulla spartizione del bottino) diventa, di fatto, un politburo che dà indicazioni sulla compilazione dei palinsesti, sulla fattura dei programmi, sui modi e sui tempi con cui devono andare in onda. Non solo: il direttore generale viene elevato a direttore editoriale di tutta la Rai esautorando completamente i direttori di rete, retrocessi a semplici passacarte.

Non contenta, la commissione mette il becco anche nei generi. Per esempio, nel nome di quella ridicola pratica del contraddittorio (ridicola per come dovrebbe essere sistematicamente attuata), non ci sarà più spazio per programmi come «Report», «Annozero», «Parla con me» e tanti altri. L’obiettivo sembra chiaro: spazzare via tutti i programmi considerati ostili all’attuale maggioranza. Il linguaggio con cui è redatto il testo, come tutti i testi vagamente totalitari, è sinistramente grottesco: «Tutti i partiti devono trovare, in proporzione al proprio consenso, opportuni spazi nelle trasmissioni di approfondimento giornalistico», «il servizio pubblico deve rappresentare il Paese reale, non le élites culturali né i cosiddetti poteri forti», «la Rai studi e sperimenti format di approfondimento giornalistico innovativi che prevedano anche la presenza in studio di due conduttori di diversa estrazione culturale», «per garantire l’originalità dei palinsesti è opportuno, in linea generale, che i temi prevalenti trattati da un programma non costituiscano oggetto di approfondimento di altri programmi, anche di altre reti, almeno nell’arco degli otto giorni successivi alla loro messa in onda».

Manca solo la lunghezza delle gonne per le annunciatrici e il colore della tinta dei capelli per gli speaker e poi c’è tutto: i dirigenti Rai possono anche andarsene a casa. Quello che maggiormente offende non è la logica spartitoria – il fondo stupido e cieco della politica – ma che queste direttive vengano proposte in assenza di una qualsiasi ridefinizione del ruolo del servizio pubblico. L’equivoco di fondo (alimentato purtroppo anche dalla sinistra) è che il servizio pubblico esiste in quanto garanzia del pluralismo, il volto nobile della lottizzazione. È proprio in nome del pluralismo che ogni partito ha reclamato e continua a reclamare la sua quota di Rai, i suoi uomini, i suoi «lotti».

Senza enfasi retoriche, senza esibizioni di «schienadrittismo», ma la battaglia da fare non è quella per il pluralismo e il contraddittorio ma per un’indipendenza strutturale della Rai. Bisogna lottare perché il servizio pubblico sia tutelato dalla competenza dei dirigenti e da una governance scelta per autorevolezza e capacità professionale. E per l’abolizione della commissione di Vigilanza.

Aldo Grasso
11 febbraio 2011

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