Fulvio Grimaldi – 08/04/2025
Fulvio Grimaldi per L’Antidiplomatico
Che fare di Palestina e Siria?
FRATELLANZE E DISCORDANZE ISRAELO-MUSULMANE
Per la Palestina, Gaza e Cisgiordania, Trump ha annunciato l’inferno. Il governante che col capo di quella struttura a gironi danteschi potrebbe benissimo gareggiare per il primato delle atrocità, quell’inferno lo va praticando da 19 mesi. Se non da anni, se non da 8 decenni.
Negli ultimi 10 giorni di marzo, violato, come è suo costume storico, ogni accordo di tregua, di cessate il fuoco, di transazione, con stermini in Libano, Siria, Cisgiordania, 1000 assassinati nella sola Gaza, di cui 322 bambini, di cui si sa quanto siano privilegiati dai cecchini dello Stato infanticida. 15 medici, infermieri, operatori umanitari in manifesta attività di soccorso uccisi a freddo, gettati in una fossa comune. 209 giornalisti uccisi, spesso assieme a moglie, figli, tutta la famiglia.
Nel calcolo di “Lancet” 150.000 vittime, al 99% civili, in maggioranza donne e bambini, uccisi da missili, bombe, droni, fame, sete, epidemie, sepolti sotto macerie. 2 milioni e passa di sopravvissuti avviati all’esodo “volontario”, nell’agghiacciante ipocrisia dei genocidari volontari che prospettano la vivisezione di Gaza con sua progressiva frammentazione in campi di concentramento sotto totale controllo dell’IDF. Grandi manifestazioni in Israele, ma mai contro questo. I kapò dei lager d’antan si ritrovano superati in classifica.
Tutto questo sulla base di un suprematismo autoassegnatosi e sacralizzato da un manuale autoredatto, ma attribuito a un autocreato dio in esclusiva e corroborato da un vittimismo, affatto simile a quello che altre comunità potrebbero assegnarsi, ma che si pretende unico nello spazio e nel tempo. Vittimismo vantato per sé, quando semmai era quello che aveva investito generazioni precedenti e ormai lontane. Vittimismo, oggi oscenamente strumentale, di una comunità religiosa fattasi imperialista e giudice dell’umano e del non umano. Quest’ultimo, dunque, in eccesso sul pianeta Terra.
Tutto questo sotto gli occhi del mondo. Non del nostro, dove, al di là e contro l’ignavia di tanti, la passiva o attiva complicità di potentati politici, economici e culturali, vasti settori di società si sono sollevati contro gli abomini dello Stato storicamente e ontologicamente fuorilegge e a sostegno delle sue vittime. Non del nostro mondo, ma di quello che legami di storia, territorio, sangue, lingua, fede, destino, sofferenze in comune, avrebbero dovuto schierarsi, politicamente e operativamente, a fianco dei palestinesi. Il mondo arabo. Gli Stati arabi.
Ricordi personali mi riportano agli anni ’60. Già vent’anni prima, una coalizione che comprendeva i paesi arabi, quasi tutti, si era impegnata, sostenuta dai suoi 450 milioni di cittadini, nell’opposizione militare all’abuso di un’Assemblea delle Nazioni Unite, a ciò non titolata, che aveva espropriato terra di arabi per assegnarla a un intruso esterno, coloniale, occupato ad imporsi grazie a pratiche terroristiche nei confronti dei legittimi possessori e al sostegno di mandanti imperialisti.
Tra aggressioni poi subite e controffensive tentate e fallite, quella che era stata, nel segno del riscatto nazionale panarabo, una coalizione di protagonisti di quel processo, vedeva l’assottigliarsi dei suoi ranghi. Rimanevano in campo, sostenuti dallo schieramento socialista, Siria, Iraq, Egitto, parzialmente Libia e Sudan. Tutti gli altri, comprese le petromonarchie del Golfo, l’Algeria, il Marocco, il Libano, la Giordania, si limitavano a fornire condivisione negli interventi diplomatici, propagandistici, nelle votazioni dell’ONU. Emerse anche un attore non statuale, o, data la sua importante presenza parlamentare e al governo a Beirut, semi-statuale: gli Hezbollah, stupefacenti vincitori dell’unica guerra persa da Israele.
Già nel 1982, seconda invasione del Libano (Sabra e Shatila, il massacro allestito dal generale Sharon, poi premier), mirata a bloccare la rivoluzione delle forze progressiste palestino-libanesi, sostenute da armamenti e intelligence siriani, ebbi l’occasione di esserne cronista. Israele riuscì a costringere l’OLP di Arafat a lasciare il suo quartier generale di Beirut e a trasferirsi a Tunisi, ma simultaneamente dovette assistere alla nascita di una nuova forza di contrasto, ben più radicata tra le masse libanesi, gli Hezbollah. E furono i militanti del “Partito di Dio” a costringere Israele a porre fine, nel 2000, all’occupazione.
In quei giorni visitai Khiyam, cittadina libanese sul confine con la Galilea occupata ed ebbi conferma in che cosa consistesse la fama del conclamato dai capi di Stato Maggiore israeliani “Esercito più morale del mondo”. A Khiyam Israele aveva allestito un carcere per prigionieri. L’ho visitato assieme a un gruppo di giornalisti europei. Celle di un metro per tre, totalmente al buio, prive di aperture e, poi, una specie di scatoloni di 1 metro per 1, in cui erano costretti a raggomitolarsi per giorni coloro che erano stati ritenuti meritevoli di punizione. In piena osservazione della convenzione di Ginevra sul trattamento dei prigionieri.
Che poi ho potuto vedere ribadita nel corso di “Piombo Fuso”, l’invasione del 2009. Significativo il metodo, messo in atto a Gaza, di civili catturati dall’IDF: venivano ammanettati, legati sui cofani dei blindati, o messi in testa a pattuglie, usati come scudi contro eventuali trappole esplosive o cecchini. Pratiche oggi esaltate nella soluzione finale portata avanti Gaza e in Cisgiordania.
Tornando al Libano, in queste ore ancora una volta vittima di bombardamenti pesanti su tutto il territorio, nel 2006 avevo assistito alla cacciata del “più potente esercito della regione”. Nel giro di poche settimane di combattimento, dopo la battaglia persa di Bint Jbeil, Israele fu costretto a ritirarsi oltre confine, per quanto a costo della distruzione a forza di bombe del gioiello storico Beirut e dello sterminio della popolazione del Sud del Libano.
Anche allora, oltre che dai rifornimenti dalla Siria e, ora anche, dall’Iran, la resistenza palestinese e araba godeva, se non altro, delle espressioni di appoggio e di condanna di Israele da parte dei singoli Stati arabi e, collettivamente, della Lega Araba. Nel 2003, a Baghdad occupata dagli USA e con Saddam in fuga, al mio rientro in taxi verso Amman incrociai un pullmino del ministero per gli Affari Palestinesi del governo di Saddam. Prendendo insieme un caffè nel posto di ristoro lungo la strada, dai due conducenti, dipendenti di quel ministero, appresi che stavano trasportando i denari del programma di aiuti alle vittime della repressione in Israele: 10mila dollari per un’abitazione demolita, 20.000 per un congiunto ucciso. E il loro governo non c’era più.
Il sostegno dei governi arabi alla resistenza armata palestinese, con mobilitazioni popolari autorizzate, anzi sollecitate, nelle varie fasi dei dirottamenti di aerei, attentati suicidi, operazioni dai paesi vicini, intifade, si era mantenuto più o meno vivo, più o meno formale o sostanziale (perlomeno in termini finanziari) a seconda dei regimi.
La svolta si annunciò nel 1970. Nella primavera di quell’anno, con lo scopo di trarne un’esperienza viva e diretta, ero entrato in un’unità militante del Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina (DFLP), con quartier generale ad Amman, capitale della Giordania. Allora quell’organizzazione, come anche il Fronte Popolare (PFLP), aveva assunto una dimensione internazionalista, di segno marxista-leninista, che prevedeva la partecipazione di combattenti di vari paesi. Mi ritrovai con egiziani, francesi, britannici.
Da una caverna sui monti che guardavano sul territorio palestinese occupato, penetravamo di notte oltre il confine segnato dal fiume Giordano, ed effettuavamo operazioni di posizionamento di mine e attacchi diretti contro le pattuglie israeliane che controllavano le zone limitrofe. Operazioni facilitate dalla tolleranza del regime di re Hussein e favorite dalla benevolenza dei posti di blocco dell’esercito giordano che formalmente avrebbero dovuto impedire ogni pretesto per rappresaglie israeliane. Che puntualmente poi si abbattevano su noi, come sui soldati giordani.
Tutto questo ebbe fine lo stesso anno, con Settembre Nero. Re Hussein, richiamato all’ordine dai padrini britannici, espulse tutte le forze della Resistenza e decimò – 20.000 morti – parte della popolazione palestinese rifugiatasi in Giordania dai tempi della Nakba e poi della guerra del 1967. Scampammo in tempo.
A rappresentare in termini tanto evidenti, quanto insospettati di tale portata, la fine di ogni sostanziale fiancheggiamento della causa palestinese da parte degli attori statali arabi, fino al limite, e oltre, della consonanza con quanto Israele va facendo oggi, è ora venuto l’episodio del Netaniahu-Qatargate. Due stretti collaboratori del premier Netaniahu, Jonathan Urich ed Eli Feldstein, funzionari del governo esecutore del genocidio palestinese, operavano per conto della monarchia degli Al Thani del Qatar e ne venivano retribuiti. La faccenda, con tutti suoi oscurissimi retroscena, coinvolge lo stesso premier. I reati ipotizzati dalla magistratura, da cui Netaniahu, colpito da pesanti imputazioni di corruzione, cerca di sottrarsi da anni, sarebbero ancora corruzione, frode, riciclaggio e abuso d’ufficio.
Qualcuno di questa intesa resterà sbalordito. Ma evidentemente ne implica altre anche di più vasta portata, esplicitate, appunto, dalla progressiva e sempre più precipitosa involuzione degli Stati arabi sopravvissuti all’eliminazione di quelli impegnati nella militanza antisionista e antimperialista. Ma sono rilevanti i segnali che l’hanno preceduta.
Il processo si è dipanato lungo le “primavere arabe” che manipolavano tensioni sociali giustificate, in direzione di una pacificazione-collaborazione col nemico sionista e di subordinazione agli interessi euro-atlantici. Venne poi il reclutamento, in giro per il mondo islamico, di forze mercenarie, già sperimentate in Kosovo e Bosnia, da utilizzare contro Libia, Siria e Iraq per quelle che da noi venivano mistificate da “guerre civili”. Il coronamento fu un evento epocale: gli accordi di Abramo, stipulati dal Trump del primo mandato, tra Israele ed Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Sudan e Marocco sotto l’occhio compiaciuto dell’internazionale finanziaria sionista, della quale Trump era debitore per il sostegno ricevuto sia nella prima, che nella seconda campagna elettorale.
Siamo alle condizioni nelle quali ha potuto maturare il silenzio-consenso dei presidenti e monarchi arabi alla suprema manifestazione israeliana di colonialismo genocida. La Russia, impegnata in Ucraina contro una strategia imperialista che non nasconde l’intenzione di farla fuori, subìto il tracollo della Siria, ha da tempo limitato il suo ruolo all’alleanza, questa sì strategica, con l’Iran e a rapporti discretamente amicali con Egitto e Algeria. La Cina si astrae sistematicamente da ogni conflittualità e promuove per altre vie la sua visione dei rapporti tra le nazioni. Peraltro con notevole successo. Tranne tra gli stupidi, come il nostro.
Dove si vede come tutto sia, alla resa dei conti, lotta di classe.
Il venir meno di quel riferimento politico e, a suo tempo anche materiale, ha di fatto infiacchito la disponibilità delle masse arabe a mobilitarsi per la Palestina e contro le incursioni imperialiste. E, parlando di masse, ci si deve anche rendere conto che queste c’erano ed erano coscienti e attive, solo nella misura in cui si trattasse di cittadini di Stati dotati di dignità, giustizia sociale e indipendenza. E di Stati in cui le persone contavano qualcosa anche per le dimensioni della loro presenza e non erano oggetto di ricatti alla permanenza e alla sussistenza.
Nelle monarchie del Golfo, decisive nel contesto di cui parliamo, di masse autoctone ce ne sono poche. Di popolo yemenita, omaniano, libanese, si può dire. Per sceiccati come il Qatar, gli Emirati, Bahrein, Kuweit, molto meno. Politicamente parlando, nel senso di attori partecipi dello Stato, ci si deve limitare alle famiglie reali e immediati dintorni clientelari.
Lì le masse sono i soldi. Lo Stato è un clan aristocratico di alcune migliaia di persone che hanno in mano il teatro con tutte le sue strutture e sceneggiature e, ovviamente, i burattini. Tutti sudditi, più spesso schiavi (come gli operai dei Mondiali nel Qatar, per tacere della cui strage abbiamo avuto il Qatargate e la corruzione di una discreta cosca di eurocrati). Gente che al minimo rintocco di voce pro palestinese, o di voce in assoluto, si ritrova su un vascello con la prua ridiretta in Bangladesh, Sri Lanka, Pakistan. Nella migliore delle ipotesi.
In prima linea resta l’Egitto di Al Sisi, con 100 milioni e passa di cittadini, in parte affamati, ma che sarebbero irritati se il governo strizzasse l’occhio a Israele. E si sa cosa combinano gli egiziani quando s’incazzano. Potrebbero esplodere più di quanto abbiano fatto a Piazza Tahrir, o di quando cacciarono, con una rivoluzione di massa poi risoltasi in golpe militare, il presidente Fratello Musulmano, Mohammed Morsi, uno che chiudeva il valico di Rafah con Gaza, bruciava le chiese cristiano-copte, proibiva gli scioperi, imponeva la Sharìa, era caro all’Occidente e poi si vendicò allestendo una campagna di attentati terroristici nel Sinai e contro alti gradi del nuovo Stato, molto gradita a Tel Aviv
E all’Egitto cui dobbiamo esercito e colonne di carri armati schierati nel Sinai a fronteggiare Israele, l’espulsione dei suoi abitanti e il piano di ricostruzione di Gaza con dentro i palestinesi e addirittura Hamas. Piano che la Lega Araba, in omaggio al buon look, ha approvato e che è l’unica zeppa finora messa alle ruspe di Trump e Netaniahu, impegnati a bersi il cocktail sulla splendida riviera di Gaza depurata.
Se poi anche domani il Cairo, con questi o altri dirigenti, dovesse partecipare alla festa della riconciliazione con lo Stato fuorilegge sionista, saremo pronti a rivedere la valutazione.
Fratellanza Musulmana, cacciata da Egitto e Tunisia, regnante nei due paesi più doppio-e triplo-giochisti della regione, Turchia e Qatar e attiva in Giordania e Marocco, intima di Londra, dove venne alla luce. E’ tornata protagonista e sarà interessante scoprire cosa succede quando due energumeni, compari nell’ eliminazione di un comune rivale, o nello svuotamento di un caveau, si ritrovano a discutere della spartizione del bottino. Parliamo di Turchia e Israele, massime potenze militari della regione.
Fatta fuori di comune accordo la Siria laica, antimperialista, antisionista, ultimo baluardo arabo, insieme allo Yemen, nel sostegno alla Palestina, si sono ritrovati faccia a faccia, impegnati a programmare un futuro di soci diventati concorrenti. Di qua la Turchia, padrina dei jihadisti, ora con cravatta, con la pulizia etnico-religiosa, politica e terroristica; di là, quella israeliana, condotta mediante installazione di basi, distruzione bombarola delle infrastrutture militari e civili e occupazione (futura annessione) di terre. Di qua, chi vuole porre un limite all’espansione in Siria del contagio curdo, prepotentemente diffusosi grazie ai servizi resi allo sponsor statunitense. Di là, una potenza che, per sventare ogni ipotesi di unità nazionale araba, ha sostenuto questa, come ogni altra minoranza.
Scontro inevitabile, seppure forse diluito nel tempo, data l’appartenenza allo stesso schieramento geopolitico, ma con alterazioni certe della mappa del Medioriente. Un anticipo lo abbiamo visto a inizio aprile. Ankara, d’accordo con i suoi virgulti Al Qaida installati a Damasco, prende possesso della massima base aerea siriana, la T4, a Tiyas, per installarvi aeronautica e apparati di difesa antiaerea. Vi vorrebbe collocare anche l’avanzatissimo sistema antiaereo S-400, incautamente fornitole da Mosca. Israele, che a dispetto di una lunga, per quanto mascherata, partnership col neo-ottomano, non può non considerare tale presenza militare turca una minaccia. E reagisce. La T4 viene bombardata, le piste e strutture sono danneggiate.
Si apre un nuovo capitolo. Come suole, da 1000 anni a questa parte, a detrimento degli arabi.
Qui l’articolo originale pubblicato su L’AntiDiplomatico