Rassegna 11/02/2025
Giulio De Petra: La digitalizzazione della guerra
La digitalizzazione della guerra
di Giulio De Petra
Infrastrutture, armi autonome e sistemi predittivi basati sull’AI sono gli ambiti della sempre più stretta relazione tra uso civile e uso militare delle tecnologie digitali. Ma anche la narrazione della AI è uno strumento di guerra
Intervento all’iniziativa “Guerra e tecnologie: il complesso digitale-militare”, tenutasi il 20.01.2025, nel ciclo “Guerra, pace, sistema mondiale”, promosso dall’Università di Roma “La Sapienza” insieme alla Fondazione Lelio e Lisli Basso, in collaborazione con la Campagna Sbilanciamoci!, Rete italiana Pace e Disarmo, Greenpeace Italia e con il patrocinio di RUniPace – Rete delle Università per la Pace.
L’utilizzo delle tecnologie digitali nei teatri di guerra non è recente, ma certamente ha avuto un fortissimo impulso negli ultimi anni. La guerra tra Russia e Ucraina e quella tra Israele e Palestina sono gli scenari dove con più evidenza è possibile osservare le caratteristiche della combinazione sempre più stretta tra tecnologie digitali e dispositivi militari (se ne è scritto recentemente su questo sito). Per comprenderne meglio le implicazioni è utile suddividere e analizzare questo connubio in tre ambiti tecnologici: quello delle infrastrutture; quello delle armi autonome; quello dei sistemi predittivi di supporto alle decisioni basati sull’AI.
Civile e militare
Prima di analizzarli è utile però rilevare una caratteristica che attraversa i tre ambiti e può fornire una chiave di lettura più generale: la stretta integrazione tra usi civili e usi militari delle tecnologie digitali (lo ha descritto efficacemente e con ricchezza di riferimenti Michele Mezza nel suo recente “Connessi a morte. Guerra, media e democrazia nella società della cybersecurity”, Donzelli Editore, 2024). E abbiamo assistito nei due teatri di guerra non solo a una più stretta intersezione di civile e militare, ma anche a una inversione rispetto al tradizionale rapporto tra usi militari e usi civili.
È tradizionale considerare l’innovazione tecnologica, e quindi anche quella digitale, come un percorso che inizia nell’ambito militare, che non solo finanzia ma indirizza la ricerca e consente efficaci opportunità di sperimentazione sul campo.
Dante Barontini: L’implosione imperialista prossima ventura
L’implosione imperialista prossima ventura
di Dante Barontini
L’Occidente neoliberista ha scoperto all’improvviso che, a proposito di dazi e guerra commerciale mondiale, Trump e i suoi amici tecnomiliardari facevano sul serio. Ma hanno anche capito con orrore, e parecchio in ritardo, che il bersaglio principale della prime mosse concrete era proprio… l’Occidente.
Il rinvio di un mese per Canada e Messico, entrambi “convinti” a mandare 10.000 soldati a testa per “controllare i confini con gli Usa” – 3.000 km a sud, quasi 9.000 a nord – non cambiano molto. E’ normale provare a trattare ogni singolo passo, prima di affondare i colpi, se si teme un’escalation fuori controllo.
A uno sguardo anche superficiale sui media mainstream lo sconcerto appare serio. L’analisi invece latita – se si usano gli schemi in voga “prima”, inevitabilmente la novità sfugge – e l’immaginare una reazione è tutto un friccicare di intenzioni sparse (“compriamo più gas dagli Usa per tenerli buoni”, da Tajani a Lagarde, che è tutto dire; oppure “anche armi“, ma è Kaja Kallas…) che non risolvono il problema. Strategico.
Uno dei più competenti e dunque preoccupati, Franco Bernabé, ex manager di molte cose importanti (Eni, Telecom, Acciaierie d’Italia, ma anche PetroChina), ha colto un punto: “la presidenza Usa piccona l’ordine mondiale costruito dagli Stati Uniti”, si tratta di “una svolta ancora più importante di quella dell’89” (la caduta del Muro e lo scioglimento dell’Unione Sovietica).
Altrettanto preoccupata Lucrezia Reichlin – economista “draghiana di ferro”, ma figlia di due icone del Pci e del manifesto come Alfredo Reichlin e Luciana Castellina – che equipara la rottura in corso a quella imposta da Richard Nixon nell’agosto del 1971, quando cancellò la parità tra oro e dollaro, ovvero l’architrave degli accordi di Bretton Woods e del primo ordine postbellico.
Sandro Moiso: A proposito di internazionalismo
A proposito di internazionalismo
di Sandro Moiso
Benedict Anderson, Anarchismo e immaginario anticoloniale, elèuthera 2024, pp. 446, 24,00 euro
Evviva la «zagaglia barbara» («Il Programma Comunista», 24 marzo 1961)
Mentre la centralità dell’ordine occidentale del mondo inizia a venir meno anche in quei settori, come quello ricollegabile allo sviluppo dell’AI, in cui si sentiva più sicuro e mentre la presidenza Trump 2.0 contribuisce a rendere più incerto il sistema delle alleanze che lo hanno garantito negli ultimi ottanta anni, la pubblicazione del testo di Bendict Anderson sulle origini dell’internazionalismo “rivoluzionario” attento ai popoli e alle nazioni estranee al contesto europeo e “biancocentrico” serve da stimolo per una riflessione che, ancor troppo spesso, appare scontata nelle sue conclusioni.
Infatti, andando a indagare un periodo in cui il socialismo era rappresentato dalle posizioni della Seconda Internazionale, la ricerca di Anderson rivela un’inaspettata e scarsamente studiata vicinanza tra le posizioni espresse dall’anarchismo e quelle proprie dei primi movimenti nazionalisti nati al di fuori del contesto europeo.
Un contesto in cui la Prima Internazionale o Associazione Internazionale dei lavoratori era nata e si era sviluppata a partire non soltanto dalla solidarietà tra i lavoratori dei vari paesi europei, ma anche da quella nei confronti degli insorti polacchi che proprio in quel periodo si battevano contro la repressione e il dominio zarista sulla loro nazione.
Non a caso un personaggio fortemente simbolico di quella stagione fu Giuseppe Garibaldi, l’”eroe dei due mondi”, guerrigliero e abile condottiero, ma scarsamente dotato dal punto di vista della visione e della capacità critica politica, così come lo ritenevano sia Marx che Engels. I quali, pur potendo essere considerati, insieme a Bakunin e altri esponenti dei movimenti politici dell’epoca come Giuseppe Mazzini, tra i “padri fondatori” di quella esperienza, sorta nel 1864 e destinata a concludersi nel 1876, ma già avviata alla sua fine a partire dall’espulsione di Michail Bakunin e di James Guillaume messa in atto al Congresso dell’Aja sulla base delle decisioni prese alla Conferenza di Londra nel 1871, ne furono contemporaneamente tra i maggiori promotori e affossatori.
comidad: La patetica fiaba della ragion di stato
La patetica fiaba della ragion di stato
di comidad
Spesso gli aspetti più interessanti di una vicenda non riguardano il merito della stessa, bensì i dettagli collaterali. In molti infatti si sono domandati il motivo per cui la Meloni nel suo spot vittimistico sul caso Almasri abbia falsamente affermato di aver ricevuto un “avviso di garanzia”, mentre invece si trattava di una semplice iscrizione nel registro degli indagati. Tra l’altro non esiste neppure un obbligo dell’autorità giudiziaria di comunicare tale iscrizione agli interessati; anzi, sta a chi teme un’eventualità del genere di attivarsi per averne notizia. Se non ci fosse stata di mezzo la competenza del tribunale dei ministri, forse la Meloni sarebbe rimasta tranquillamente ignara.
Non si trattava dunque di informazione di garanzia, ma anche se la Meloni avesse usato l’espressione corretta di iscrizione nel registro degli indagati, l’effetto di far indignare i suoi follower, e spingerli in un abbraccio ideale verso di lei, ci sarebbe stato ugualmente, poiché le sottigliezze della procedura penale non sono di universale conoscenza. I casi perciò sono due: o la Meloni ha mentito inutilmente, per pura abitudine e per riflesso condizionato, esponendosi altrettanto inutilmente a essere sbugiardata; oppure la Meloni è la prima a ignorare i risvolti della procedura penale e, imprudentemente, è corsa a cercare il calore dei suoi fan prima ancora di consultarsi con i suoi co-indagati Nordio e Piantedosi, i quali, pur non essendo delle cime, probabilmente masticano qualcosa di procedura penale. Potrebbe trattarsi quindi non di menzogna intenzionale o compulsiva, ma di banale cialtroneria.
Fulvio Grimaldi: Palestinesi e altri 120 milioni, è tempo di migrare — Élite contro tutti — E’ colonialismo, bellezza
Palestinesi e altri 120 milioni, è tempo di migrare — Élite contro tutti — E’ colonialismo, bellezza
di Fulvio Grimaldi
Canale Youtube di Fulvio Grimaldi
https://www.youtube.com/watch?v=17uxIKn19TY
“Premio Attila” a chi distrugge la terra. Premio “Jack lo Squartatore” a chi fa sparire 2,3 milioni di esseri umani – merce ingombrante – dalla loro terra, per costruirci un resort per genocidi.
Premio “Piano Mattei” a chi si salva da un’invasione di migranti affidandoli alla custodia di chi, appena sottratto a giudici che si permettono di perseguire criminali, li incarcera, tortura, stupra, uccide.
Trump-Netaniahu, mercenariato d’eccellenza dell’Occidente dollarizzato al tempo del suo disfacimento nell’ignominia e nel raccapriccio: E, da noi, un postribolo di papponi e mignotte, abusivamente chiamato governo, che si precipita a reggergli lo strascico insanguinato.
Ma cos’è questa emigrazione? Un fenomeno, o un’operazione? Una delle emergenze create nel famigerato laboratorio di armi biologiche, tipo clima, Covid, terrorismo? O l’ammodernata versione della tratta degli schiavi?
Ma stavolta, tra andare e venire, non solo tra Italia e Albania, Texas e Messico, Nigeria o Bangladesh e Ghetto Mezzanone (Foggia), è una tratta che può anche riavvolgersi su se stessa. Il boom è finito, tanto più lo sviluppo detto sostenibile, siete troppi, non ci servite più, sparite. Resti quanto contribuisce alla disgregazione sociale: ci offre il pretesto per scatenare sui sudditi i Nordio e i Piantedosi.
Davide Malacaria: Trump e la deportazione dei palestinesi
Trump e la deportazione dei palestinesi
di Davide Malacaria
Trump incontra Netanyahu ed evoca la pulizia etnica di Gaza. Tregua a rischio
Nella conferenza stampa congiunta con Netanyahu, in visita negli Usa, Trump ha reso ufficiale quanto aveva in precedenza: i palestinesi verranno espulsi da Gaza e gli Stati Uniti prenderanno il controllo della Striscia. Mai un crimine contro l’umanità (pulizia etnica) era stato dichiarato in maniera così pubblica da un presidente degli Stati Uniti. Trump non maschera la brutalità propria dell’esercizio del potere imperiale.
La bomba sulla tregua
I palestinesi, chiaramente, hanno reagito con legittima indignazione a tale prospettiva, che peraltro rischia di far collassare la fragile tregua di Gaza che proprio ieri entrava nella seconda e decisiva fase in cui le parti tratteranno del ritiro israeliano e del futuro dalla Striscia e Hamas procederà alla liberazione dei restanti ostaggi.
Ma, mentre Hamas annunciava di essere pronto al nuovo round di negoziati, Trump sganciava una bomba nucleare su di essi. Infatti, la richiesta del ritiro dell’esercito israeliano da parte della milizia islamica aveva come sottinteso che Gaza restasse ai palestinesi. L’improvvida dichiarazione di Trump nega tale opzione.
Alessandro Avvisato: Ucraina. Si vede la fine, ma non è una pace
Ucraina. Si vede la fine, ma non è una pace
di Alessandro Avvisato
Il terzo anniversario di guerra in Ucraina – 22 febbraio – rischia di essere l’ultimo per l’attore prestato alla presidenza del Paese che doveva risolvere il problema Russia per conto della Nato.
Le sorti del conflitto sul campo sono ormai segnate, ammettono anche i più falsari tra gli osservatori e gli “inviati” (i nomi sono sempre gli stessi, compresa Cecilia Sala). Dunque in ogni caso è ora di abbozzare concretamente una via d’uscita meno costosa possibile. Ovviamente il “costo” cambia parecchio, a seconda degli interessati.
Per il popolo ucraino è salatissimo. Centinaia di migliaia, forse un milione di morti in battaglia, più qualche migliaio di civili per effetto dei missili o dei droni abbattuti e andati fuori bersaglio (se fossero stati volontariamente indirizzati sui civili, come a Gaza, le proporzioni delle perdite rispetto ai militari sarebbero opposte).
In più un paese industrialmente distrutto, la produzione agricola crollata, debito allucinante con gli “alleati” che pretendono ora pezzi sostanziali per il saldo (Trump ieri ha spiegato di voler negoziare un “accordo” con l’Ucraina affinché Kiev offra una “garanzia” sulle sue “terre rare” minerarie, in cambio degli aiuti).
L’unico errore non ancora commesso dalla junta nazigolpista di Kiev è stato quello di cedere alla richiesta del “democratico Biden”, di mobilitare anche la generazione tra i 18 e i 25 anni, mandandola a morte. Ma solo perché erano comunque troppo pochi, per effetto di quella drastica riduzione della natalità che colpisce ormai quasi tutti i paesi dell’Occidente (e anche la Russia, la Cina, ecc), e dunque insufficienti a cambiare il timing del disastro.
Fabrizio Poggi: Le ipotesi in campo sul futuro dell’Ucraina post Maidan
Le ipotesi in campo sul futuro dell’Ucraina post Maidan
di Fabrizio Poggi
A Bruxelles vogliono la guerra. Non si preoccupano più nemmeno di nasconderlo. «Non possiamo parlare di fare di meno quando dovremmo fare di più» per alimentare il conflitto in Ucraina, ha proclamato una degli eredi di quei komplizen che ottant’anni fa marciavano compatti dietro le schiere hitleriane nel Baltico e oggi sproloquiano di “valori europeisti” e “resilienza democratica”, esigendo più soldi per la guerra sottraendoli alle spese sociali.
Dettando la “linea” della “diplomazia” europeista, Kaja Kallas è sicura che «l’Ucraina dovrebbe essere la principale priorità» della UE che, tradotto, suona come “la guerra con la Russia ha la precedenza assoluta su tutto il resto”. Dunque, ben venga il 5% del PIL per le spese di guerra, secondo gli ordini impartiti da Donald Trump, per rimpolpare le entrate del complesso militare-industriale USA.
Ma, quanto conta davvero l’Europa? Secondo l’americano “Politico”, Trump e Putin sono d’accordo su una cosa: togliere di mezzo il beniamino dell’Europa, Vladimir Zelenskij, indicendo le elezioni presidenziali. Nei giorni scorsi, il rappresentante speciale yankee per l’Ucraina, Keith Kellogg, aveva anticipato che «nella maggior parte delle democrazie, le elezioni si tengono anche in tempo di guerra», in riferimento all’annullamento del voto decretato dal jefe de la junta golpista la scorsa primavera col pretesto della guerra. Poi il colpo di grazia: «la forza di una democrazia stabile è data dalla presenza di più di un candidato»: ad esempio l’ex Capo di SM Valerij Zalužnij o il capo dei Servizi Kirill Budanov.
Rattus Norvegicus: La proprietà aperta e i suoi nemici: suicidi eccellenti nella Silicon Valley
La proprietà aperta e i suoi nemici: suicidi eccellenti nella Silicon Valley
di Rattus Norvegicus
Considero il recente (presunto) suicidio del programmatore indiano ventiseienne Suchir Balaji, un giovane che aveva alle spalle quattro anni di lavoro presso il centro di ricerca di OpenAI, un evento di una tale gravità da richiedere un ripensamento in merito al ruolo svolto dalla proprietà intellettuale negli ultimi quarant’anni, sia all’interno della produzione informatica e di rete sia, più in generale, nell’ambito dei complessi rapporti che questa peculiare forma di proprietà privata ha stabilito con la libertà di opinione, con il diritto di accesso all’educazione e alla formazione, con la cooperazione internazionale allo sviluppo e, per estensione, con tutti i principali pilastri del diritto nelle democrazie liberali, quelli che i paladini del libero mercato continuano a invocare nei loro discorsi pubblici sebbene nelle realtà non se ne veda più traccia da moltissimo tempo.
Partendo dalle prime proteste dei movimenti “no copyright” degli anni Novanta, fino ad arrivare alle attuali rimostranze contro la violazione, da parte dell’intelligenza artificiale generativa (LLM), delle leggi americane sul fair use, abbiamo assistito a un progressivo attenuarsi dei motivi polemici contro queste leggi. Da posizioni che si schieravano radicalmente contro la proprietà intellettuale, siamo passati a un atteggiamento sostanzialmente inverso: un pieno riconoscimento delle leggi di tutela del copyright, accompagnato dalla veemente denuncia delle loro violazioni effettuate dalle Big Tech. Come vedremo alla fine dell’articolo, è da quest’ultima posizione che Balaji aveva mosso la sua critica, rigorosa e puntuale, nei confronti di OpenAI.
Per una serie di strane e tristi coincidenze, ci è dato ripercorrere brevemente l’itinerario di queste oscillazioni in materia di proprietà intellettuale degli ultimi quarant’anni, a partire dalle morti di altri due autorevolissimi ricercatori informatici che, come nel caso Balaji, sono state archiviate come suicidi dall’autorità giudiziaria statunitense.
Gennaro Scala: Nuovi mostri: s’avanza il liberal-nazismo?
Nuovi mostri: s’avanza il liberal-nazismo?
di Gennaro Scala
È necessario sottrarsi al gioco di specchi tra sinistra e destra imperialistiche. Pensiamo a un Saviano che maledice Musk, ma non ha niente da dire sul genocidio in Palestina, o, al fatto ovvio che il “saluto romano” di Musk non intaccherà la stretta alleanza tra Usa e Israele (in merito difeso su X da Netanyahu, quale “grande amico di Israele”), ecc.
Tuttavia, non prendere sul serio e ignorare il plateale gesto di Musk neanche convince. Innanzitutto, eviterei il “dibattito” se Musk è fascista o nazista, visto che fino a qualche a tempo fa era in ottimi rapporti con l’amministrazione Biden, fin quando non ha deciso di cambiare cavallo, puntando su quello vincente. È evidente un uso puramente strumentale delle ideologie, da parte di questi personaggi, che non credono in nulla, al fine di raggiungere determinati scopi. Chiediamoci invece quali obiettivi politici persegue Musk nell’ambito dell’amministrazione Trump. Analizziamo il “saluto romano” che in quanto gesto simbolico condensa diversi significati. Musk ha voluto richiamarsi al saluto alla bandiera americana, il “saluto di Bellamy”, introdotto nel 1892, e poi abbandonato durante la seconda guerra mondiale perché troppo simile a quello nazista, e sostituito con il gesto della mano sul cuore. Il gesto di Musk, come si vede nei filmati, unisce le due forme di saluto. Ma, siccome il “saluto romano” non era in uso il riferimento inequivocabile è proprio al “saluto romano” (che tra i romani invece non era in uso in ambito politico come ci informano gli storici). La vicenda ha assunto dei connotati che diremmo comico-grotteschi, se non si trattasse di personaggi con un enorme potere, stile la gag “Hitler Tony” di Lillo e Greg, quando Musk ha postato su X le foto di Obama, della Clinton, della Harris immortalati nel “saluto fascista”, mentre, in realtà, stavano salutando la folla. Invece, Musk ha proprio inteso fare il “saluto romano”, ma poi nega l’evidenza … è Hitler Tony (per chi non ha visto la gag è facile da ritrovare in internet).
Alessandro Somma: L’Occidente ha i secoli contati (ma l’Europa unita finirà molto prima)
L’Occidente ha i secoli contati (ma l’Europa unita finirà molto prima)
di Alessandro Somma
Il saggio di Emmanuel Todd sulla sconfitta dell’Occidente convince soprattutto nella previsione circa la fine dell’Unione europea come conseguenza del suo appoggio incondizionato alla guerra condotta dagli Stati Uniti contro la Russia. L’Unione nasce del resto come progetto atlantista, concepito per serrare le fila del mondo capitalista e affossare il costituzionalismo democratico e sociale sorto come reazione alla sconfitta del fascismo. E si sviluppa sotto forma di dispositivo neoliberale irriformabile, in quanto tale destinato a minacciare a tal punto le società europee da far apparire una loro reazione avversa come inevitabile e prima o poi destinata a produrre il disfacimento dell’Unione.
Todd trascura però le differenze tra il costituzionalismo democratico e sociale e quello liberale, e con ciò elementi fondamentali per analizzare la crisi della democrazia provocata dalla virulenza del neoliberalismo. Per contro sopravvaluta il ruolo della religione in quanto fondamento per il recupero della dimensione comunitaria indispensabile al successo del costituzionalismo: anche il neoliberalismo possiede una simile dimensione, nel cui ambito la religione ben può divenire una fonte di valori premoderni buoni solo a sostenere la modernità capitalista.
Il declino dell’Occidente e il neoliberalismo
La letteratura sul declino dell’Occidente ha una tradizione relativamente lunga. Prende corpo con il celeberrimo volume di Oswald Spengler, pubblicato alla conclusione del primo conflitto mondiale con una tesi decisamente reazionaria: il “tramonto” della civiltà occidentale veniva attribuito alla centralità assunta dal denaro alimentata dalla democrazia, tanto che lo si sarebbe potuto arrestare solo con l’avvento del cesarismo[1].
Da allora molti si sono cimentati con lo stesso tema e con sensibilità le più disparate, quindi non solo per sponsorizzare soluzioni antidemocratiche al declino dell’Occidente.
Davide Malacaria: Trump e la deportazione dei palestinesi
Trump e la deportazione dei palestinesi
di Davide Malacaria
Trump incontra Netanyahu ed evoca la pulizia etnica di Gaza. Tregua a rischio
Nella conferenza stampa congiunta con Netanyahu, in visita negli Usa, Trump ha reso ufficiale quanto aveva in precedenza: i palestinesi verranno espulsi da Gaza e gli Stati Uniti prenderanno il controllo della Striscia. Mai un crimine contro l’umanità (pulizia etnica) era stato dichiarato in maniera così pubblica da un presidente degli Stati Uniti. Trump non maschera la brutalità propria dell’esercizio del potere imperiale.
La bomba sulla tregua
I palestinesi, chiaramente, hanno reagito con legittima indignazione a tale prospettiva, che peraltro rischia di far collassare la fragile tregua di Gaza che proprio ieri entrava nella seconda e decisiva fase in cui le parti tratteranno del ritiro israeliano e del futuro dalla Striscia e Hamas procederà alla liberazione dei restanti ostaggi.
Ma, mentre Hamas annunciava di essere pronto al nuovo round di negoziati, Trump sganciava una bomba nucleare su di essi. Infatti, la richiesta del ritiro dell’esercito israeliano da parte della milizia islamica aveva come sottinteso che Gaza restasse ai palestinesi. L’improvvida dichiarazione di Trump nega tale opzione.
Thomas Fazi: L’Europa può dire addio al futuro. Il blocco è intrappolato in una prigione neoliberista
L’Europa può dire addio al futuro. Il blocco è intrappolato in una prigione neoliberista
di Thomas Fazi
Più di due decenni fa, l’UE ha presentato la sua strategia di Lisbona, che si prefiggeva di trasformare l’Unione nell’“economia basata sulla conoscenza più dinamica, competitiva e sostenibile, che godesse di piena occupazione e di una coesione economica e sociale rafforzata”.
Sappiamo quanto bene ha funzionato. Difficilmente dinamica, certamente non competitiva, l’UE è rimasta costantemente indietro rispetto ad altre nazioni in praticamente ogni parametro economico chiave. Mentre gli Stati Uniti e la Cina intensificano la loro corsa per la supremazia tecnologica del XXI secolo, l’Europa è costretta a guardare da bordo campo, assediata da stagnazione economica, alti costi energetici, sconvolgimenti politici e inerzia burocratica.
E ora è in preda al panico per la minaccia di tariffe sulle importazioni da parte di Donald Trump. Ma un riequilibrio dell’economia europea, che attualmente ha un enorme surplus commerciale nei confronti degli Stati Uniti, sarebbe davvero una cosa così negativa?
La realtà è che la crescita delle esportazioni non indica un’economia di successo. Al contrario, basta guardare la Germania. L’UE è sempre stata una potenza esportatrice proprio a causa della sua economia in declino, causata dalla mancanza di consumi e investimenti interni.
Enrico Tomaselli: Il triangolo no
Il triangolo no
di Enrico Tomaselli
Nell’ambito della sempre esplosiva situazione mediorientale, assume sempre più rilevanza una complessa triangolazione, che rappresenta oggi il cardine della politica statunitense nella regione. Mentre durante l’amministrazione Biden, infatti, la politica americana è andata completamente a rimorchio di quella israeliana, con l’avvento della nuova amministrazione Trump tornano a primeggiare gli interessi strategici di Washington – pur fermo restando il saldo appoggio per Tel Aviv.
In questa fase, in effetti, gli interessi strategici statunitensi si trovano a coincidere con gli interessi tattici israeliani, anche se – per ragioni di equilibri politici interni – questi ultimi non possono essere dichiarati apertamente all’interno dello stato ebraico. Ragion per cui Netanyahu trova comodo nascondersi dietro le pressioni americane, ed al tempo stesso le utilizza per contrattare delle contropartite. Il suo viaggio negli states (primo leader straniero incontrato da Trump dal suo insediamento) serve precisamente a questo.
Rapidamente archiviata la tragica boutade di trasferire i gazawi in Egitto e Giordania, le questioni sul tavolo sono altre, ma tutte di non facile soluzione.
La prima è quella dell’implementazione della seconda fase del cessate il fuoco. La questione centrale è in effetti quella del governo di Gaza dopo il ritiro israeliano.
Fulvio Grimaldi: Congo, l’Africa prende il largo
Congo, l’Africa prende il largo
di Fulvio Grimaldi
Africa, chi viene e chi va. Chi va sono soprattutto, in prima persona, i francesi con, in seconda battuta, gli statunitensi. Chi viene sono essenzialmente gli stessi che se ne vanno, se ne devono andare, cacciati, ma che provano a tornare sotto mentite spoglie. È il caso di fuori i francesi! dal Sahel, dall’Atlantico del Senegal al Mar Rosso dell’Eritrea, passando per Mali, Niger, Burkina Faso, Guinea, Chad e, ha da venì, Repubblica Centroafricana, che ha cominciato a chiedere agli Usa se non fosse il caso di ritirare i propri militari. Altri che arrivano, ma prima non c’erano, sono i russi e cinesi. Di questi ci sarà altra occasione per dire.
Nel giro di tre anni, dal 2020 della rivoluzione anticoloniale in Mali, l’intera fascia subsahariana ha cambiato fisionomia. Se qualcuno, frantumando la Libia, linciando Gheddafi, insediando a Tripoli una brigata di criminali alla Osama Al Masri, pensava di aver posto fine alla spinta del continente verso, se non l’unità, l’autodeterminazione e l’affrancamento dal neocolonialismo nelle sue varie forme, il Sahel gli ha dato modo di ricredersi.
In Senegal per via elettorale, con neo presidente Diomaye Faye e premier Ousmane Sonko a sostituzione di Maky Sall, uomo di Parigi; in Mali, Niger e Burkina Faso dove Assimi Goita, Abdurahman Tchani e Ibrahim Traorè, rispettivamente, portano al potere una giunta militare che corona una rivolta popolare contro i francesi, termina il dominio coloniale del Franco francese e il presidio militare di Parigi, USA e altri NATO.
Sara Gandini e Paolo Bartolini: ‘L’industria del complottismo’: tra i conformisti e i semplificatori esiste una terza strada
‘L’industria del complottismo’: tra i conformisti e i semplificatori esiste una terza strada
di Sara Gandini e Paolo Bartolini
L’uscita recente del libro di M. Amiech, L’industria del complottismo (Malamente edizioni, 2024), con una pregevole prefazione di Elisa Lello, merita un invito alla lettura.
Il testo dello studioso e attivista francese rappresenta un valido strumento per cercare una via critica che eviti i luoghi comuni degli ultimi anni, soprattutto relativi all’emergenza sanitaria Covid-19. Il primo è quello che ha usato il “complottismo” come termine svalutativo per neutralizzare e criminalizzare qualsiasi lettura non coincidesse con la dottrina mainstream propinata dalla quasi totalità dei mass media. Il secondo, simmetrico e opposto, è quello di coloro che hanno preferito risolvere il disagio, la paura e la confusione adottando processi mentali tesi a semplificare e imputare ogni evento distorto alle intenzioni malevole di soggetti più o meno oscuri, detentori esclusivi delle leve del comando.
Le teorie cospirazioniste – come suggerisce il libro – sbocciano come effetto della depoliticizzazione della società e del silenziamento del dibattito pubblico. Esse risultano deboli e talora perniciose, non perché diffondano il seme dell’irrazionalismo, ma perché la fanno troppo facile e inibiscono una reale presa di responsabilità collettiva. Insomma, condannano all’impotenza compiaciuta. Sono perfette per masse atomizzate, che abitano internet e rimangono murate nel loro isolamento digitale, sfogando rabbia e malumore senza mai cogliere fino in fondo cosa sia il potere. Quest’ultimo non è riconducibile in modo lineare e riduzionistico a trame occulte, perfettamente coordinate su scala mondiale.