[Rete Ambientalista] A fronte di un siffatto disastro sanitario ed ecologico, quanti ad Alessandria hanno la coscienza a posto?

Rassegna 17/03/2025

A fronte di un siffatto disastro sanitario ed ecologico, quanti ad Alessandria hanno la coscienza a posto?

I Sindacati? I sindacati, nei primi cinquanta anni di esistenza del polo chimico di Spinetta Marengo hanno fatto quello che hanno potuto in quella che venne subito soprannominata “la fabbrica della morte” ma che sfamava centinaia di famiglie per metà contadine. Solo dopo il Sessantotto, fino alla sconfitta sindacale degli anni ’80, la tutela della salute è al primo posto in fabbrica e finanche fuori. E’ dal “Consiglio di fabbrica” che viene elaborata la rivendicazione dell’”Osservatorio ambientale della Fraschetta”. Dopo, invece, il ricatto occupazionale, vero o presunto, spinge il sindacato in un patto di subordinazione politica e culturale con Montedison e Solvay, pur nella consapevolezza della tragica nocività: è emblematico il volantino aziendale della CGIL del 2002 che per prima denuncia il cancerogeno PFOA, e poi tace per sempre pur conoscendo le analisi del sangue (PFAS) dei lavoratori. E’ emblematico il fatto che, in decine di anni, né all’Inail né in tribunale sia mai stata avviata causa di risarcimento per malattie e morti operaie. Neppure sostenuto nei due processi penali contro Solvay [*] .
I Movimenti? L’ “Associazione dei Comitati della Fraschetta” e la “Rete ambientalista provinciale”  dagli anni ’80 al 2000 svolgono azioni di supplenza all’inazione dei sindacati, non solo riferite al polo chimico ma anche alle altre situazioni di crisi del territorio. Si tratta di manifestazioni che coinvolgono in piazza migliaia di persone e sono contrassegnate da una forte conflittualità  nei confronti di Provincia e sindaci  di Alessandria (prevalentemente di sinistra).
I politici? La democratica e rivoluzionaria proposta di “Osservatorio ambientale” è in aperto conflitto con la criminale opacità di Montedison prima e di Solvay poi; dunque con la complicità delle istituzioni. Anzi, con la loro connivenza, addirittura corruzione: come emerge clamorosamente nelle dichiarazioni della stessa Solvay al primo processo del 2009 (nei verbali delle udienze e leggendo “Ambiente Delitto Perfetto”). Eppure, sotto la spinta popolare, essi effettuano “obtorto collo” le prime (delle otto) indagini epidemiologiche esplodenti l’eccesso di patologie e tumori fatalmente riconducibili alle emissioni tossiche e cancerogene di Montedison e Solvay. Ma il loro piede sul freno resterà sempre premuto a negare o rallentare i monitoraggi di massa del sangue della popolazione (“la pistola fumante”) [**]. A tacere il peso della lobby Solvay sull’intero Parlamento [***] .
I magistrati? La prima, e unica, Procura di Alessandria che non viene contestata da Comitati e Associazioni è quella diretta da Michele Di Lecce (con il sostituto Riccardo Ghio) che nel 2009 incrimina l’intero management Solvay per avvelenamento doloso (fino a 16 anni di reclusione), ma che viene abbattuta dalla sentenza che rimpicciolisce i reati a blande colposità, non risarcisce le Vittime, e non obbliga alle bonifiche. Così, dei venti esposti alle Procure del “Movimento di lotta per la salute Maccacaro”, ben 11 sono invano depositati presso il nuovo procuratore capo Enrico Cieri. Così, benchè tutti chiedono di intervenire -per presunti reati dolosi- su dettagliati e reiterati fatti di lesione all’ambiente e alla salute dei lavoratori e dei cittadini,  invece, il capo di imputazione del ritardato processo odierno è ristretto a un leggero reato colposo e a carico delle ultime ruote del carro (due semplici direttori). In più (a tacere la clamorosa esclusione di Lino Balza quale parte civile [****]) il GUP ha avviato addirittura la verifica con le parti civili di un patteggiamento che sarebbe un clamoroso colpo di spugna economico e penale per Solvay [*****] .
Gli avvocati e i medici?  Ad Alessandria gli avvocati si sono sempre accodati, e accomodati, ai capi di imputazione delle Procure (nel bene: Di Lecce e nel male: Cieri), mai opponendosi nelle memorie e nel dibattimento. Questi processi in sede penale si risolvono con sostanziose parcelle legali, con regali a Associazioni che piombano sui processi come avvoltoi, con “risarcimenti” a Enti locali e sindacati che piuttosto meriterebbero di sedere sul banco degli imputati. Non si risolvono mai, né ieri né oggi nella storia di Alessandria, in risarcimenti pubblici per il disastro del territorio e, quanto meno, in risarcimenti alle Vittime: alle centinaia o migliaia di Ammalati e Morti. Per questi risarcimenti gli avvocati non hanno mai intrapreso azioni collettive in sede civile -efficaci “class action- scusandosi della difficoltà di censire una massa di persone lese  (cosa ci stanno a fare Comitati e Associazioni?), nonché della mancata collaborazione dei medici, nella fattispecie dei medici legali che offrano non speculativamente la propria prestazione.  
I giornalisti? Un velo pietoso su quelli di Alessandria, salvo eccezioni. Fanno epoca le clamorose intercettazioni della Procura sui rapporti di alcuni giornalisti con Solvay. Insomma, più luci sul passato (si legga “L’avventurosa storia del giornalismo di Lino Balza) e più ombre sul presente  (si legga sempre “Ambiente Delitto Perfetto).
[*****]

I depuratori non fermano i Pfas, bisogna bloccare produttori e utilizzatori.

Non per inveire “dagli all’untore”, ma non può che essere la Solvay di Spinetta Marengo ad avvelenare anche Torino.  E’ fuori di dubbio, infatti, che l’unico produttore dei cancerogeni Pfas in Italia è la multinazionale belga, in particolare con il brevetto C6O4, e che da Spinetta Marengo direttamente inquina in territorio alessandrino e, indirettamente, il Piemonte e l’Italia.
Infatti, La Stampa fa grandi titoli: Pfas, l’allarme di Smat: ‘I depuratori non bastano, bisogna bloccare gli scarichi industriali’.  Infatti, Rai Piemonte titola “I Pfas anche nelle fogne di Torino: trovati C6O4 e PFOA”.
Spiegano: “Punte di 40mila nanogrammi per litro. Il composto con la concentrazione media più alta è proprio il C6O4. Tra le molecole maggiormente presenti ne salta all’occhio una trovata in corrispondenza di un’industria galvanica. Su oltre 200 controlli il maggior numero di campioni positivi è stato ricondotto a piattaforme di trattamento rifiuti. Il monitoraggio Smat sulle acque reflue riconduce la contaminazione a piattaforme di trattamento rifiuti, industrie galvaniche e alcuni altri impianti produttivi”.
Smat (Società Metropolitana Acque Torino S.p.A.) ammette di non essere in grado di depurare le acque nere dai Pfas. E dunque chiede al Comune di “introdurre dei limiti che impediscano alle aziende di sversarli nel reticolo fognario. Obiettivo: salvare i nostri fiumi. E in ultima istanza l’ambiente, e anche l’acqua potabile”. A maggior ragione perché la mappa di Greenpeace segnala il Piemonte e Torino tra i territori più colpiti.

Vigili del fuoco morti a causa dei Pfas.

L’allarme a livello internazionale era stato più volte evidenziato sul nostro Sito. Ora il caso dei pompieri morti per glioblastoma, tumore cerebrale, sta mobilitando le istituzionei con indagini in corso e campionamenti sulle acque e sull’aria nelle caserme italiane. La tragedia del  decesso di Mario Marraghini, Maurizio Ponti e Antonio Ralli, della caserma di Arezzo,  ha messo in moto l’amministrazione centrale dei vigili del fuoco anche con un programma di ricerca, condiviso con l’Università di Bologna.
Come noto, i Pfas possono  essere presenti negli equipaggiamenti (tute, maschere ecc,) e nelle schiume antincendio, anche se quelle in uso attualmente dovrebbero, dopo gli allarmi, essere  più sicure, ma negli anni in cui i tre vigili erano al lavoro (e insieme a loro migliaia di colleghi in tutto il mondo) la composizione con i Pfas era provata e conosciuta.

IARC conferma l’estrema tossicità e cancerogenicità dei Pfas.

Recente valutazione della IARC, l’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro. Un gruppo di lavoro di 30 esperti internazionali provenienti da 11 Paesi è stato convocato dal programma delle Monografie IARC e, dopo aver esaminato a fondo la vasta letteratura pubblicata, riporta una sintesi dei principali risultati di uno studio delle Università di Bologna e di Padova pubblicato nel giugno 2023 sulla rivista Toxics che conferma una serie di effetti negativi sulla salute legati all’esposizione ai PFAS.
Ad esempio, una forte regressione del metabolismo e del trasporto dei lipidi e di altri processi correlati allo sviluppo ovarico, alla produzione di estrogeni, all’ovulazione e al funzionamento fisiologico del sistema riproduttivo femminile. Tutti elementi che possono spiegare gli effetti dannosi dei PFAS sulla fertilità e sullo sviluppo fetale.
I dati raccolti mostrano inoltre che l’esposizione ai PFAS produce una sovraregolazione di un gene coinvolto nello sviluppo di vari tipi di cancro, tra cui leucemia, cancro al seno e al pancreas.
I dati epidemiologici suggeriscono che un’elevata esposizione a questi materiali possa aumentare significativamente la mortalità di individui affetti da neoplasie maligne dei tessuti linfatici ed ematopoietici, come milza, fegato e midollo osseo.
Lo studio sembra inoltre confermare l’effetto tossico sul sistema immunitario. L’esposizione ai PFAS aumenta anche la concentrazione nel siero dei marcatori di stress infiammatorio e ossidativo e favorisce così lo sviluppo di malattie sistemiche, come il danno epatico e le malattie cardiovascolari, tra cui l’aterosclerosi e gli eventi tromboembolici.
È emerso, inoltre, che l’esposizione a PFAS sia in grado di aumentare la concentrazione di trigliceridi e colesterolo nel sangue.

Pfas responsabili della omeostasi tiroidea.

Immagine Carcinoma papillare multifocale  della tiroide 
L’esposizione a sostanze per- e poli-fluoroalchiliche (PFAS) – note come appartenenti ai disruttori endocrini (Endocrine Disrupting Chemicals, EDCs) – sia individuali che in combinazione, è associata a cambiamenti nella sensibilità degli ormoni tiroidei periferici, piuttosto che centrali. È quanto emerge da uno studio pubblicato su “The Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism”, condotto da Xinwen Yu e Yufei Liu, del Dipartimento di Endocrinologia del Secondo Ospedale Affiliato dell’Università Medica dell’Aeronautica Militare, a Xi’an (Cina).
I PFAS sono ampiamente riconosciuti per la loro persistenza nell’ambiente e i potenziali effetti di disturbo endocrino: questo studio trasversale ha investigato le associazioni tra l’esposizione ai PFAS e i parametri della omeostasi tiroidea in soggetti adulti (2386, età media 47.59 anni; 53.94% uomini; 42.88% bianchi) partecipanti a due cicli della National Health and Nutrition Examination Survey (2007-2008 e 2011-2012).

Osteoporosi nei giovani anche con Pfas a bassi livelli.

Un nuovo studio condotto da ricercatori dell’Università di Padova e dall’Ospedale di Vicenza, grazie ad un finanziamento regionale dal Consorzio per la Ricerca Sanitaria (CORIS) della Regione Veneto, ha messo in luce quanto l’esposizione prolungata ai PFAS possa alterare il metabolismo osseo modificando i livelli di calcio. Pubblicato su Chemosphere, lo studio ha coinvolto 1.174 adulti (655 uomini e 519 donne di età compresa tra i 20 e i 69 anni) provenienti da un’area da decenni interessata da contaminazione delle acque potabili.
Una delle più frequenti manifestazioni cliniche riscontrate in soggetti esposti anche a bassi livelli di PFAS è l’osteoporosi, una maggior fragilità dell’osso tipica dell’invecchiamento ma che si può già manifestare in giovane età laddove si sia esposti anche a basse concentrazioni di queste sostanze”, spiega il professor Carlo Foresta, coordinatore dello studio.
“I nostri risultati ci spingono a riflettere su come un’esposizione prolungata a PFAS, anche se invisibile, possa avere ripercussioni sulla salute a lungo termine”, conclude il professor Foresta. “Abbiamo dimostrato che la ben nota associazione tra PFAS e osteoporosi, ormai dimostrata a livello internazionale, non è tanto mediata da una riduzione di vitamina D, quanto da un’azione diretta dei PFAS sull’osso con conseguente liberazione di calcio”.

Raccolta fondi per i No Ponte.

104 cittadini che vivono nell’area dello Stretto di Messina hanno deciso di difenderla con ricorso al tribunale delle imprese per impedire la costruzione del ponte senza progetto definitivo ma già costato 14,5 miliardi di euro: una grande opera inutile (la mobilità avviene via mare) e profondamente invasiva in un territorio antropizzato (espropri, cantieri, cave, discariche, aumento del traffico, inquinamento dell’aria e dell’ambiente marino e la sottrazione di tantissima acqua, la risorsa più preziosa). Cioè con un impatto devastante e benefici incerti. E, alla minaccia di trasformare il territorio in un gigantesco cantiere infinito, si aggiunge l’emorragia di risorse dirottate dal Fondo di sviluppo e coesione al ponte.
La grande comunità del movimento “no Ponte” si è mobilitata a sostegno in appello dei ricorrenti per far fronte comune alle spese legali. Per partecipare alla raccolta fondi è possibile fare una donazione con PayPal o bonifico (Iban IT85G0503416504000000002792) intestato a: ASS.CULT.AMB. Ragione Sociale: ASS.CULT.AMB. la città dello Stretto. Filiale: Messina- Ganzirri.

Via da Taranto anche il secondo processo ILVA.

L’ha deciso il tribunale di Taranto. Dopo  il processo «Ambiente Svenduto» già trasferito,  al tribunale di Potenza è stato spostato anche il processo a carico di cinque  appartenenti alla famiglia Riva e tre ex dirigenti dell’Ilva nel periodo dal 1995 al 2012. Le accuse a loro carico sono a vario titolo di disastro ambientale, gestione illecita di rifiuti, mancata bonifica, inquinamento delle acque, danneggiamento aggravato e compromissione di un’area protetta, gravina Leucaspide, in agro di Statte, in cui venivano stoccati 5 milioni di tonnellate di rifiuti pericolosi e non pericolosi di origine industriale, in cumuli dell’altezza di oltre 30 metri sopra il piano campagna, tutte opere prive di copertura e rimedi contro lo spandimento di polveri pericolose per la salute, frane e dispersione in falda del percolato.

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