Rassegna – 31/03/2025
Alessio Mannino: “Tutti a casa”? Sì, ma prima un bel TSO (Test di Sana Opposizione)
“Tutti a casa”? Sì, ma prima un bel TSO (Test di Sana Opposizione)
di Alessio Mannino
Solo una sana e consapevole autocritica salva il rivoluzionario dallo stress e dalla coazione catodica. Fra i lettori appassionati di storia del Pci, qualcuno si ricorderà che l’educazione nelle scuole del partito, Frattocchie su tutte, prevedeva il rito sadico dell’autocritica davanti ai “compagni”. In pratica, scontando il gusto cattolico per la confessione, l’allievo era tenuto a dichiarare quanto e perché non si era dimostrato all’altezza dei criteri, allora molto esigenti, in fatto di coerenza e serietà, anche sul piano privato. Non si valutava, infatti, solo il profitto nello studio, ma anche la diligenza, la disciplina, la reputazione. Era un’eredità staliniana che oggi considereremmo ai limiti della violenza psicologica, oltre che di un bacchettonismo un po’ ridicolo. Tuttavia, un indubbio valore formativo lo aveva: abituava il futuro funzionario votato a rappresentare la Causa ad anteporla a sé, ammettendo i propri limiti e difetti e dando agli altri spunti di riflessione a sua volta autocritica. Era un esercizio di autocoscienza di gruppo.
Ai nostri giorni, imparagonabili a quei tempi di partiti-chiese e impegno politico missionario, si è sbracato finendo nell’eccesso diametralmente opposto. Oggi vale tutto e il suo contrario. La sfera politica, intesa latu sensu come spazio pubblico in cui chiunque può intervenire con un semplice post sui social, è diventata una cosa grottesca e tribale, stilisticamente incrociabile tra i raccontini Harmony, l’aruspicina delle proprie viscere e il filmetto splatter dove il sangue scorre rigorosamente virtuale. In un’abissale distanza rispetto a quel remoto addestramento monacale, l’attuale politica, vista sul piano organizzato di leader, associazioni e propaganda, aderisce completamente alle modalità del Marketing, vero e unico Intellettuale Collettivo che di tale degrado rappresenta il motore d’alimentazione. Non si preoccupa minimamente di formare gli elementi attivi, attivisti, quadri, staff, e men che meno gli stessi capi. E per forza: che importanza può avere la preparazione al campo di lotta, se la lotta è filtrata da una cornice che impone i canoni semplicistici di un infantilismo indotto?
Cesare Alemanni: La Cina progredisce sui chip e sfida le restrizioni
La Cina progredisce sui chip e sfida le restrizioni
di Cesare Alemanni
Tra gli anni ’90 e il 2016, all’epoca della iper-globalizzazione a egemonia americana, il mondo ha assistito a un processo di divisione del lavoro su scala planetaria. La specializzazione di distretti industriali e aree economiche nelle attività in cui ciascuna godeva dei maggiori “vantaggi comparati” (in termini di sviluppo, risorse, lavoro o logistica) è stata una dei motori dell’accelerazione tecnologica degli ultimi decenni.
La possibilità di ridurre l’investimento nelle infrastrutture produttive, spostando le lavorazioni in luoghi caratterizzati da costi inferiori (pensiamo alla supply chain asiatica di Apple), ha permesso all’industria dell’hardware di liberare immensi capitali da investire nell’innovazione. Tra i settori che hanno cavalcato più intensamente queste dinamiche c’è quello dei microchip (o semiconduttori): l’oggetto tecnologico alla base di tutte le tecnologie, dal banale termostato ai sistemi di guida delle testate nucleari, dalle batterie dei veicoli elettrici ai server per l’addestramento delle intelligenze artificiali.
Il modello delle foundry, le fabless e la divisione del lavoro
Negli ultimi trent’anni, le aziende di chip dal maggiore valore di mercato, quasi tutte americane, hanno iniziato ad appaltare gran parte della loro attività di manifattura all’estero, in paesi come Taiwan e la Corea del Sud, dove hanno trovato personale qualificato (i chip richiedono ingegneri molto formati in tutte le fasi della lavorazione) con un costo del lavoro decisamente inferiore. Ha così preso piede, soprattutto nella regione dell’Indo-Pacifico, il modello delle “foundry”: aziende di manifattura avanzatissima, che fabbricano chip per conto di aziende occidentali, le quali possono così concentrarsi sulla curva dell’innovazione, che nei chip si incarna nella celebre “legge di Moore” (ovvero l’osservazione che il numero di transistor contenuti in un chip raddoppia ogni due anni).
Roberto Fineschi: Ucraina, “pacifismo” e dintorni
Ucraina, “pacifismo” e dintorni
di Roberto Fineschi
Avendo essi avuto una minima eco, raccolgo qui alcuni post recenti da facebook sulla guerra in Ucraina e manifestazioni “pacifiste” per salvarli dalla dispersione
14 febbraio.
Rilanciavo un post del 20 marzo 2022 dove anticipavo conclusioni poi verificatesi.
20 febbraio
Cortocircuiti (apparenti e reali)
La guerra in Ucraina l’hanno voluta vari governi degli Stati Uniti. L’idea parte da lontano, ma diventa più concreta con l’espansione NATO verso est, il colpo di stato di Maidan, le devastazione in Donbass e poi la guerra vera e propria (non per dire che altrimenti in Ucraina sarebbe stato il paradiso terrestre, beninteso, ma ciò non significa non guardare in faccia la realtà).
Sin da Maidan è un processo in cui gli USA scavalcano l’Europa (fuck the UE) e poi via Boris riscavalcano i tentativi di trattativa di Germania e Francia che evidentemente avevano capito l’andazzo.
L’obiettivo primo era rompere la connessione oriente/occidente con la via della seta che arrivava fino in Portogallo; correlatamente distruggere la Germania/Euro/farraginose-ambizioni-imperialiste-europee portandole alla condizione di vassalli stabilita con la fine della II guerra mondiale. Idealmente far crollare la Russia, ma pare irrealistico che si immaginassero di sconfiggerla sul campo (a meno di non fare ben altra guerra ovviamente). Che l’Ucraina e nemmeno l’UE partecipino alle trattative di pace la dice lunga su chi fossero i reali attori.
La definizione dell’orto di casa insomma, che il capitalismo al crepuscolo americano (vale a dire non valorizzante ma depredante) ha bisogno di tenersi ben saldo perché lo deve spolpare.
Allo stesso tempo far paura un po’ a tutti: chi sgarra si becca una guerra (via terzi o diretta a seconda dei casi). Il governo US vince anche solo destabilizzando le varie aree, affinché non si organizzino per creare circuiti alternativi al Sacro Graal (il dollaro che trasforma i debiti fuori controllo in risorsa).
Fulvio Grimaldi: Balcani, terra dei fuochi — 26 anni fa a Belgrado: 70 anni di pace in Europa?
Balcani, terra dei fuochi — 26 anni fa a Belgrado: 70 anni di pace in Europa?
di Fulvio Grimaldi
Siamo al 26esimo anniversario dell’attacco NATO alla Serbia. Serbia riluttante a farsi mutilare del suo arto kosovaro a fini di impiantarci Bondsteel, la più grossa base USA d’Europa e di diventare la soluzione finale per la Jugoslavia. Un anniversario segnato da micce accese in tutti i Balcani, micce che paiono correre verso barili pieni di esplosivo.
Sergio Mattarella, che l’istituzione consacra rappresentante di tutti gli italiani (anche di quel quasi 70 per cento che non condivide la sua passione per la guerra e in difesa del governo golpista e dittatoriale dell’Ucraina), ripete a giradischi rotto che grazie all’UE abbiamo avuto 70 anni di pace in Europa. Lo ripete da protagonista, con D’Alema premier e i Comunisti Italiani di Diliberto e Rizzo soci di governo, della prima guerra NATO (rifiutata dall’ONU) di europei contro europei. Per la precisione, di europei aggressori contro europei aggrediti, neutrali e, colpa anche maggiore, socialisti, del tipo Cogestione.
Lo spazio aereo e marittimo che permetteva i 78 giorni di bombardamenti a tappeto, anche all’uranio impoverito, su 7 milioni di donne, uomini, vecchi e bambini serbi, era il nostro. E nostre erano le basi da cui decollavano i bombardieri. E nostro era il mare attraversato dalle navi militari e anche da qualche mercantile della Caritas scoperto pieno di armi. Armi d’offesa per i terroristi e trafficanti di droga e organi dell’UCK, al comando del poi sentenziato criminale di guerra Hashim Thaci, fidanzato morganatico di Madeleine Albright, Segretaria di Stato USA con il democratico Clinton.
Michele Blanco: Die Linke: la fine della sinistra
Die Linke: la fine della sinistra
di Michele Blanco
Incredibilmente Die Linke, l’unico partito di sinistra tedesco che ha raggiunto il quorum del 5 per cento e ha rappresentanti nel parlamento, si è unito ai guerrafondai nella loro rincorsa all’inutile riarmo.
Questi ultimi giorni sono storici per la Germania, non in senso positivo.
Il parlamento tedesco ha modificato il freno costituzionale al debito per consentire enormi spese militari illimitate, indipendentemente da quanto profondamente porteranno il bilancio federale in rosso.
Ma la cosa gravissima è che nessuna spesa sarà destinata a investimenti in ospedali, assistenza, istruzione, asili nido, pensioni, tecnologie verdi, insomma allo Stato sociale.
In questi giorni il parlamento tedesco ha stabilito che quando si tratta di finanziare la vita e la felicità dei cittadini, l’austerità resta fondamentale perché sancita nella costituzione tedesca. Al contrario gli investimenti nella morte sono stati resi possibili e illimitati senza più la morsa costituzionale dell’austerità.
La ragione di fondo per questo cambiamento sconvolgente alla Costituzione tedesca è semplice: i produttori di automobili tedeschi sono ormai troppo poco competitivi.
Non riescono più a vendere con profitto le loro auto né in Germania né all’estero.
Carla Filosa: Democrazia e dispotismo
Democrazia e dispotismo
di Carla Filosa
Dal depistaggio dei dissensi politici relativi al “riarmo” europeo e alla riesumazione del Manifesto di Ventotene quale veleno contro la piazza pro Europa, il salto in Parlamento (19 marzo) è stato altamente acrobatico. Al di là dell’umana manifestazione emotiva del parlamentare Fornaro, lo sdegno di trovarsi di fronte a parole fascistoidi da parte della Presidente del Consiglio ha determinato sì un tafferuglio, ma nessun chiarimento postumo, politicamente doveroso e umanamente necessario, sul significato “dittatura del partito rivoluzionario” interpretato come negazione del superiore vessillo appropriato di “democrazia”.
Lo spettacolo di Benigni del giorno dopo, come sempre misurabile solo a colpi di share (5 milioni di spettatori), ha glissato sui cardini politici concettuali trattati come “idee superate”, attribuendo ai “nazionalismi” – chissà come formatisi, basta nominarli! – la condanna di essere “il carburante di tutte le guerre”, cui ha fatto seguito tutto un repertorio da comunista pentito a democristiano fan di De Gasperi, ultimando poi con un’omelia pacificante tra ideali “fratelli” d’Europa. “Democrazia” non è riduttivamente solo libertà di circolazione delle idee, come lo show del narratore richiede, è molto di più: è pari opportunità sociale ai reali conflitti di classe di cui non s’ha nemmen da far menzione!
Elena Basile: Pace possibile se si ritira la strategia dei neocon
Pace possibile se si ritira la strategia dei neocon
di Elena Basile
Le reali possibilità di una pace in Ucraina esistono. Non sarà una pace giusta per l’Ucraina perché raramente la storia ha conosciuto paci giuste. La pace è tuttavia sempre necessaria. Non è retorica immedesimarsi nei ragazzi al fronte e nei loro genitori che ogni giorno sperano in un cessate il fuoco. Le ultime morti prima della pace sono sempre le più atroci.
La neutralità dell’Ucraina è stata la ragione principale di questa guerra. Lo aveva capito George Kennan nel 1997 quando vinsero i falchi al Dipartimento di Stato, cancellando le speranze dell’Osce e puntando, in un quadro unipolare, sull’espansionismo della Nato come alleanza militare offensiva fino ai confini con la Russia.
Lo aveva capito Henry Kissinger che nel 2014 preannunciò il conflitto con la Russia se non si fosse ribadita la neutralità di Kiev.
Nel 1997 Brzezinski nella Grande Scacchiera e nel 2019 la Rand Corporation con il documento Extending Russia avevano puntato sullo smantellamento della Federazione russa. Le multinazionali occidentali premevano per accaparrarsi le immense materie prime e le terre rare.
Per i neo-conservatori Usa la sconfitta della Russia attraverso l’Ucraina avrebbe evitato il pericolo di una saldatura euroasiatica e la vittoria a spese di Washington del modello economico ed energetico fondamentale per la potenza tedesca ed europea. Perché Calenda e tutti gli altri guerrafondai non studiano le vere cause delle dinamiche internazionali?
Alberto Giovanni Biuso: Trump e Schmitt. Sul declini dell’Europa
Trump e Schmitt. Sul declino dell’Europa
di Alberto Giovanni Biuso
Dopo le guerre successive alla dissoluzione dell’Impero romano, dopo dunque i conflitti medioevali tra i popoli cristiani, la novità rappresentata in età moderna dalla nascita degli stati centralizzati e autonomi richiese l’elaborazione di nuove forme della convivenza e del diritto, le quali ebbero compimento e ratificazione nelle paci di Westfalia del 1648 che chiusero la fase violentissima delle guerre di religione. Con questo e con alcuni successivi trattati nacque lo Jus Publicum Europaeum, il quale costituì «un capolavoro della ragione umana» per la sua capacità di porre fine ai «massacri delle guerre tra fazioni religiose» e limitando i conflitti alla forma della «semplice guerra tra gli Stati» come guerra circoscritta e guidata da regole che evitassero il coinvolgimento distruttivo delle popolazioni. L’esito fu costituito dal «fatto sorprendente che per due secoli non si ebbe sul territorio europeo nessuna guerra di annientamento» (Carl Schmitt, Il Nomos della terra, Adelphi 1991, p. 177).
Poi arrivarono i ‘valori’, vale a dire il ritorno a guerre combattute in nome di principi assoluti e sacri. Nel Medioevo tali principi si riferivano alle verità teologiche. Con la Rivoluzione francese e le guerre napoleoniche essi si fondavano su principi etici, riassunti nella formula dei ‘diritti dell’uomo’.
Carlo Formenti: Unicità dell’Olocausto e aberrazione nazista
Unicità dell’Olocausto e aberrazione nazista
Ovvero: come rimuovere gli ordinari crimini occidentali e la memoria dei genocidi coloniali
di Carlo Formenti
I.
Le violente reazioni polemiche con cui politici, intellettuali e giornalisti occidentali di ogni colore ideologico (ad eccezione di qualche minoranza) hanno replicato alle accuse di genocidio allo stato israeliano, sono la conferma che tali accuse – più che fondate – toccano un nervo scoperto, in quanto mettono in questione un mito alimentato e condiviso da tutti i regimi liberal-democratici euroatlantici. Per inciso, che le accuse siano più che fondate non è testimoniato solo dal numero spaventoso di vittime di ogni età e sesso provocate dal terrorismo aereo praticato dal governo di estrema destra di Netanyahu, ma da quei rari intellettuali israeliani che, come Ilan Pappé (1), denunciano da tempo le pratiche criminali del regime sionista.
Di più: lo conferma il significato originario – prima che venisse mistificato da decenni di propaganda ideologica – del termine genocidio, coniato, come ricorda lo storico Leonardo Pegoraro (2), dal giurista polacco di origine ebraica Raphael Lemkin negli anni della Seconda Guerra mondiale. Costui definì genocidio la distruzione di una nazione o di un gruppo etnico, non riferendosi solo all’annientamento fisico delle vittime, ma anche alla soppressione delle istituzioni di autogoverno, alla distruzione della struttura sociale e della classe dirigente, al divieto di usare la propria lingua, alla privazione dei mezzi di sussistenza, alla criminalizzazione di una determinata fede religiosa, all’umiliazione e la degradazione morale. Mi pare chiaro che molti, se non tutti, questi criteri si applicano ai crimini che vengono quotidianamente perpetrati contro la popolazione palestinese.
Partendo da tale definizione, Pegoraro contesta la testi “unicista” che attribuisce alla Shoah l’attributo di unico evento storico suscettibile di essere definito genocidio. La cultura e la prassi genocidaria, argomenta, esistono fin dalla più lontana antichità, come testimoniato dall’Iliade e (lupus in fabula) dall’agghiacciante invito divino del Deuteronomio che recita: “Soltanto nelle città di questi popoli che il Signore tuo Dio ti dà in eredità, non lascerai in vita alcun essere che respiri, ma li voterai allo sterminio: cioè gli Hittiti, gli Amorrei, i Cananei, i Perizziti, gli Evei e i Gebusei” (20:16-17).
Thomas Fazi: «In Romania la democrazia è morta»
«In Romania la democrazia è morta»
Elisabetta Burba intervista Thomas Fazi
La riflessione dell’analista italo-inglese sulla rimozione del candidato Călin Georgescu dalle presidenziali rumene
L’alleanza di estrema destra rumena AUR è favorita nei sondaggi in vista delle presidenziali di maggio. Un exploit che si è verificato dopo le manovre dei palazzi di Bucarest, che hanno estromesso dalla corsa elettorale il candidato filo Trump Călin Georgescu. Il 9 marzo, la Commissione elettorale rumena ha escluso Georgescu, sovranista e critico dell’Unione Europea, dalle imminenti elezioni. Un fatto senza precedenti, che segue un evento altrettanto straordinario: l’annullamento, lo scorso novembre, a opera della Corte costituzionale rumena, del primo turno delle stesse elezioni presidenziali, in cui Georgescu era risultato il vincitore. Krisis ha chiesto all’analista Thomas Fazi, acuto osservatore delle dinamiche all’interno dell’Unione Europea, di commentare la débâcle rumena. Secondo Fazi, il caso rumeno segna un pericoloso precedente che potrebbe ripetersi in altri Paesi. E in altri schieramenti politici.
«Il rigetto della candidatura di Călin Georgescu in Romania è un precedente che sarebbe inquietante anche se non avesse visto la partecipazione attiva della UE e di alcuni dei principali governi europei». Non usa mezzi termini, Thomas Fazi. Il saggista italo-inglese, figlio dell’editore Elido Fazi, 42 anni, acuto osservatore delle dinamiche politiche e della sovranità nazionale all’interno dell’UE, commenta quanto sta accadendo in Romania. Il 9 marzo, la Commissione elettorale di Bucarest ha estromesso dalle nuove elezioni presidenziali del 4 maggio Călin Georgescu, il candidato critico dell’Unione europea favorito nei sondaggi.
Franco Berardi Bifo: Come ho potuto pensare di essere europeista?
Come ho potuto pensare di essere europeista?
di Franco Berardi Bifo
L’Europa è il cuore di tenebra dell’orrore che chiamiamo storia, scrive Franco Berardi Bifo in questo prezioso esercizio di critica e autocritica
Credevamo
Credevamo che fosse finito l’orgoglio demente
delle bandiere al vento
Credevamo che fossero passate di moda
quelle parole idiote
che trasformano gli imbecilli in assassini.
Credevamo si fosse esaurita
la passione di distruggere per poi ricostruire,
e la passione di uccidere per non morire.
Credevamo che nie wieder significasse “Mai più”
e non “fino alla prossima volta”.
Credevamo che il genocidio
fosse cosa di un’epoca passata.
coniarerivolta: La guerra non è uguale per tutti
La guerra non è uguale per tutti
di coniarerivolta
E per alcuni è più uguale che per altri. Per scoprirlo basta leggere il cosiddetto Joint White Paper for European Defence, appena pubblicato dalla Commissione Europea e dall’Alto rappresentante dell’Unione Europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza.
La distruzione di vite umane e la violenza bruta sono l’aspetto più visibile e drammatico di un conflitto, di ogni conflitto, ma a fianco di ciò che accade alla luce del sole si agitano dinamiche più profonde, che contribuiscono a spiegare perché ciclicamente il vento del bellicismo più sguaiato torna a fare mostra di sé. È notizia di pochi giorni fa l’appello lanciato dalla presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen ad armarsi e partire, rimettendo (parzialmente) in discussione il dogma dell’austerità di bilancio per ‘riarmare l’Europa’. Adesso il White Paper permette di chiarire con più precisione i contorni di questa operazione e, soprattutto, di fare luce su quali interessi economici si muovano e soffino sul fuoco della guerra alle porte.
Il documento si apre facendo sfoggio di retorica di grana grossa – siamo circondati dalla minaccia rappresentata da Stati autoritari come Russia e Cina; c’è la prospettiva di un conflitto su larga scala all’orizzonte – e provando a convincere il lettore che il riarmo auspicato è negli interessi di tutta la popolazione europea, poiché il nostro stile di vita e le nostre prospettive di prosperità sono messe a repentaglio dall’incertezza causata dalla rottura dell’ordine internazionale e dalle minacce esterne.
Nico Maccentelli: Il vero pericolo nazionalista e guerrafodaio è l’europeismo
Il vero pericolo nazionalista e guerrafodaio è l’europeismo
di Nico Maccentelli
E’ evidente ormai anche ai meno svegli, come l’iniziativa a piazza del Popolo di sabato scorso, promossa da Michele Serra, pagata a quanto pare dal sindaco PD Gualtieri e gestita dagli armieri di Stellantis che possiedono La Repubblica e la Leonardo, sia stata una kermesse tutta a vantaggio del riarmo e dell’allarmismo bellico. Un’allerta del tutto creato ad arte (la Russia non ha né interesse, né intenzione di invadere l’Europa…) e che abbisogna di mobilitazioni popolari e quindi di retorica. Il riarmo che riguarderà non un esercito europeo comune ma i singoli stati, vede già pericolosissimi 1000 mld di euro in Germania e la proposta di 800 mld di euro fatta dagli euroburocrati per conto della Von Der Leyen, che significa consegnare alla finanza rapace con capitali di rischio i soldi dei risparmiatori europei, ma soprattutto tagli feroci ai servizi più essenziali per la cittadinanza come la sanità, l’istruzione, le opere pubbliche di manutenzione del territorio, ecc.
Sulla sfilata oscena di nani e ballerine di regime in quota PD, ho già scritto su Carmilla qui. Aggiungo solo che, come sostiene il Marrucci su Ottolina tv, il rispolvero del Manifesto di Ventotene, mai considerato per la costruzione della gabbia europea e concentrato di elucubrazioni socialisteggianti più vicine alla massoneria fabiana che a una visione pur dignitosa di un azionismo antifascista, è la foglia di fico di questa congerie di pacifinti guerrafondai piddini, completamente allineati all’opzione GB-Macron-Kallas di escalation bellica, salvo alcuni timidi distinguo della Schlein che nel partito conta come il due di coppe quando briscola è bastoni. Per cui di tale manifesto e delle gite dannunziane a Ventotene ce ne frega il giusto.
Gaetano Colonna: La questione ucraina e il futuro dell’Europa
La questione ucraina e il futuro dell’Europa
Giulietta Iannone intervista il prof. Gaetano Colonna
Grazie professore di averci concesso questa intervista che si ricollega a quella che ci ha concesso nel marzo del 2023. Parleremo sempre di Ucraina, e più nello specifico delle conseguenze di questa guerra per l’Europa e più in generale sui cambiamenti, repentini e per un certo verso imprevisti, sull’Ordine Mondiale. Inizierei con il fare un bilancio su questi ultimi tre anni di guerra, a partire dall’ingresso delle truppe russe in Ucraina nella cosiddetta “operazione militare speciale”.
Dunque nell’ottica di Mosca l’Ucraina come ex repubblica sovietica rientrava a pieno titolo nelle sfere di influenza della Russia. Dal punto di vista russo era dunque più che legittimo intervenire per riportare all’ordine una “repubblica ribelle“, troppo protesa verso l’Occidente?
Non credo si debba parlare di repubblica ribelle. La preoccupazione della Russia è nata dalla ripetutamente minacciata adesione dell’Ucraina alla NATO. Poi dagli accordi economici tra Unione Europea e Ucraina sullo sfruttamento delle risorse minerarie dell’Ucraina: infatti, nel luglio 2021, l’allora vicepresidente della Commissione europea Maroš Šefčovič incontrò a Kiev il primo ministro ucraino Denys Shmyhal, per sottoscrivere il partenariato strategico sulle materie prime ucraine. Nel novembre 2021, ad esempio, la European Lithium Ltd. di Vienna (società di esplorazione e sfruttamento minerario) creava una joint venture con la Petro Consulting Llc (azienda ucraina basata a Kiev), che dal governo locale aveva ottenuto i permessi per estrarre il litio da due depositi (Shevchenkivske nel Donetsk e Dobra, nella regione di Kirovograd), vincendo la concorrenza della cinese Chengxin.
Paolo Bartolini: Sartoria politica
Sartoria politica
di Paolo Bartolini
Un certo disimpegno da parte degli USA rispetto alla NATO (che non implica affatto l’abbandono dei presidi a stelle e strisce presenti sul territorio europeo: gli Stati Uniti hanno bisogno di un’Europa subalterna e funzionale ai loro interessi nell’area) sta spingendo le élite europee orfane dei Dem in direzione di una risposta che possa coniugare capitalismo finanziario e negazione degli errori madornali fatti da molti anni a questa parte.
Il piano di riarmo, battezzato in maniera ipocrita “Prontezza”, produrrà una bolla clamorosa di investimenti e profitti nel campo dell’industria militare. Da un lato si pensa di ravvivare l’economia con un rilancio del settore sicurezza/difesa, poi evidentemente si ambisce – cosa irrealistica oltre ogni misura – a indicare il cammino verso un’unificazione politica dell’UE (o quantomeno al coordinamento stabile di iniziative congiunte prese da un nucleo di paesi volenterosi: una specie di NATO europea come spiegava quel personaggio che è Carlo Calenda in uno scontro rovente con Marco Travaglio nel programma Accordi & Disaccordi). Che l’obiettivo degli eurocrati sia la guerra con la Russia entro il 2030, o che lo spauracchio serva solo al progetto di “rafforzamento” della coesione UE tramite un nemico esterno, in entrambi i casi l’Unione europea si dimostra cieca alle vere esigenze dei cittadini. I leader che ci sgovernano da anni, non possono ammettere di aver perso in Ucraina e di aver sbagliato tutto con le loro politiche di appoggio incondizionato a Zelensky (politiche dettate direttamente da Washington e assimilate integralmente da fanatici inclini alla russofobia permanente), allora si atteggiano a nobili statisti e provano a cogliere l’occasione per tramutare un disastro nel rilancio del sogno europeista.