Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia ETS – 01/04/2025
[srpskohrvatski / italiano / english]
Jugoslavia Palestina Israele
B. The main features of the historical background of the Palestine question
C. The appraisal of the Palestine Mandate and its functioning in the present situation
D. The present situation in Palestine
E. Basic principles and premises for the solution of the problem
Fu Israele a realizzare per primo un rapimento di civili da scambiare con prigionieri e sempre Israele ha in realtà tenuto in ostaggio un intero popolo per decenni con la scusa del mantenimento della pace. Lo ha spiegato il prof. Joseph Massad, un accademico giordano specializzato in studi mediorientali, professore di politica araba moderna e storia intellettuale presso la Columbia University negli USA…
Intervista allo storico israeliano: «I processi di decolonizzazione sono dolorosi per il colonizzatore: perderà terre e privilegi e vedrà stravolte leggi, istituzioni e distribuzione delle risorse. Sono processi inevitabili: se il sionismo fosse nato 300 anni fa, avrebbe ottenuto il proprio scopo, ma è emerso quando il mondo aveva già rifiutato il concetto …
Agli inizi dello Stato di Israele, un ebreo ungherese Rezso Kasztner (noto come Rudolf Ysrael Kastner) fu nominato portavoce del ministro del Commercio e dell’Industria. Si scoprì in seguito che durante la seconda guerra mondiale aveva negoziato con i nazisti la fuga di ebrei ungheresi…
https://www.voltairenet.org/article220817.html
Nova komunistička partija Jugoslavije (NKPJ) osuđuje sramnu izjavu predsednika Republike Srpske Milorada Dodika, koji je iz Izraela podržao predlog američkog predsednika Donalda Trampa o etničkom čišćenju Palestinaca iz Gaze. Dodik je u svojim sramnim izjavama istakao da se ne mogu razumeti strahote koje je narod Izraela proživeo, te da se njihov “miran” život pretvorio u agoniju. Dalje, Dodik je izneo rasističke i antimuslimanske kvalifikacije, želeći da Palestince predstavi kao podržavaoce islamističkih terorista, čime je poistovetio ceo palestinski narod sa terorizmom.
NKPJ ukazuje na to da Dodikove reči otvoreno podržavaju etničko čišćenje i genocid koji cionistički režim sprovodi nad Palestincima. Sramotno je da Milorad Dodik ignoriše katastrofalnu situaciju u Gazi, gde su živote izgubile stotine hiljada civila od strane cionističkog režima koji je marioneta američkog imperijalizma. Ovo nije prvi put da Dodik iznosi neistine o Palestincima; ranije je tvrdio da su tokom rata u Bosni i Hercegovini Palestinci organizovano dolazili da čine zločine protiv Srba.
Međutim, NKPJ naglašava da je istina drugačija. Palestina je uvek bila uz Srbiju. Država Palestina priznaje teritorijalni integritet i suverenitet Srbije, dok cionistički režim u Izraelu priznaje lažnu državu Kosovo. Palestinski lider Jaser Arafat je podržavao Jugoslaviju tokom NATO agresije 1999. godine, a palestinski narod je organizovao brojne proteste protiv bombardovanja Savezne Republike Jugoslavije. Takođe, u znak prijateljstva, Arafat je pozvao tadašnjeg predsednika Jugoslavije, Slobodana Miloševića, da dođe u Jerusalim za Božić 2000. godine, ali Milošević nije mogao da prihvati poziv zbog pretnji Izraela o njegovom hapšenju i izručenju Haškom tribunalu.
Dodikove izjave postaju još perverznije kada se uzme u obzir međunarodni kontekst, te da se Republika Srpska nalazi na udaru zapadnog imperijalizma kao i Palestina. U prilog tome je i izjava američkog državnog sekretara Mark Rubia, koji je podržao presudu suda u Bosni i Hercegovini koja je osudila Milorada Dodika. NKPJ, iako ne podržava Dodika zbog njegove antinarodne politike, razume opasnost od zapadnog imperijalizma i njegovih pokušaja da ukine RS. Ako bi do toga došlo, srpski narod bi se ponovo našao pred pogromom, kao što je to bio slučaj u Hrvatskoj i na Kosovu i Metohiji. U tom smislu, Dodikove izjave postaju tragikomične, jer zapadni imperijalizam vodi istu politiku prema Srbima kao i prema Palestincima, čiji narodi su žrtve takve politike.
NKPJ ističe da je Milorad Dodik, koji je na vlast došao 1998. godine uz podršku zapadnog imperijalizma i visokog predstavnika, apologeta cionizma. Sramno je da predstavnik srpskog naroda, naroda koji je pretrpeo etnička čišćenja i raseljavanja izazvana od strane zapadnog imperijalizma tokom bratoubilačkih ratova, podržava etničko čišćenje Palestinaca. Ova izjava nije samo uvreda za palestinski narod, već i za ceo srpski narod.
NKPJ ističe da su Palestinci, narod koji pati od kontinuiranog genocida od strane cionističkog režima u Izraelu, podržavali su srpski narod kad god mu je bilo teško. Antipalestinska kampanja koju je podržao i predsednik Republike Srpske nije samo antipalestinska, već je i antisrpska.
NKPJ se solidariše sa palestinskim narodom u njihovoj pravednoj borbi za slobodu. Milorad Dodik je sramota za srpski narod. NKPJ ističe da većina srpskog naroda ima simpatije za palestinski narod i da izjave Milorada Dodika ne predstavljaju mišljenje većine Srba. Srpski narod dobro zna šta je borba protiv imperijalizma, borba za slobodu i šta su užasi i ratovi, te etničko čišćenje. Stoga je srpski narod uz narod Palestine i njihovu pravednu borbu!
Živelo srpsko – palestinsko prijateljstvo!
Palestina Država – Kosovo je Srbija!
Sekretarijat Nove komunističke partije Jugoslavije,
Beograd, 27.03.2025.
La NKPJ sottolinea che le parole di Dodik sostengono apertamente la pulizia etnica e il genocidio perpetrati dal regime sionista contro i palestinesi. È vergognoso che Milorad Dodik ignori la situazione catastrofica a Gaza, dove centinaia di migliaia di civili hanno perso la vita per mano del regime sionista, burattino dell’imperialismo americano. Non è la prima volta che Dodik racconta falsità sui palestinesi; in precedenza aveva affermato che durante la guerra in Bosnia ed Erzegovina i palestinesi erano giunti in modo organizzato per commettere crimini contro i serbi.
Tuttavia la NKPJ sottolinea che la verità è diversa. La Palestina è sempre stata con la Serbia. Lo Stato di Palestina riconosce l’integrità territoriale e la sovranità della Serbia, mentre il regime sionista in Israele riconosce il falso Stato del Kosovo. Il leader palestinese Yasser Arafat appoggiò la Jugoslavia durante l’aggressione della NATO nel 1999 e il popolo palestinese organizzò numerose proteste contro i bombardamenti della Repubblica Federale di Jugoslavia. Inoltre, in segno di amicizia, Arafat invitò l’allora presidente della Jugoslavia, Slobodan Milosevic, a recarsi a Gerusalemme per Natale nel 2000, ma Milosevic non poté accettare l’invito a causa delle minacce israeliane di arrestarlo ed estradarlo al Tribunale dell’Aja.
Le affermazioni di Dodik diventano ancora più perverse se si considera il contesto internazionale e il fatto che la Repubblica Serba di Bosnia Erzegovina, proprio come la Palestina, è sotto l’attacco dell’imperialismo occidentale. A sostegno di ciò c’è la dichiarazione del Segretario di Stato americano Mark Rubio, che ha appoggiato il verdetto del tribunale della Bosnia-Erzegovina che ha condannato Milorad Dodik. L’NKPJ, pur non sostenendo Dodik a causa delle sue politiche antipopolari, comprende il pericolo dell’imperialismo occidentale e dei suoi tentativi di abolire la RS. Se ciò dovesse accadere, il popolo serbo si troverebbe nuovamente ad affrontare un pogrom, come è accaduto in Croazia e in Kosovo e Metohija. In questo senso, le affermazioni di Dodik diventano tragicomiche, perché l’imperialismo occidentale persegue nei confronti dei serbi la stessa politica che adotta nei confronti dei palestinesi, il cui popolo è vittima di tali politiche.
NKPJ sottolinea che Milorad Dodik, salito al potere nel 1998 con il sostegno dell’imperialismo occidentale e di un alto rappresentante, è un apologeta del sionismo. È vergognoso che un rappresentante del popolo serbo, un popolo che ha subito la pulizia etnica e gli spostamenti causati dall’imperialismo occidentale durante le guerre fratricide, appoggi la pulizia etnica dei palestinesi. Questa affermazione non è solo un insulto al popolo palestinese, ma anche all’intero popolo serbo.
L’NKPJ sottolinea che i palestinesi, un popolo che soffre il continuo genocidio perpetrato dal regime sionista in Israele, hanno sostenuto il popolo serbo ogni volta che la situazione era difficile. La campagna anti-palestinese sostenuta dal presidente della Republika Srpska non è solo anti-palestinese, ma anche anti-serba.
L’NKPJ è solidale con il popolo palestinese nella sua giusta lotta per la libertà. Milorad Dodik è una vergogna per il popolo serbo. L’NKPJ sottolinea che la maggioranza del popolo serbo simpatizza con il popolo palestinese e che le dichiarazioni di Milorad Dodik non rappresentano l’opinione della maggioranza dei serbi. Il popolo serbo sa molto bene cosa sia la lotta contro l’imperialismo, la lotta per la libertà, cosa siano gli orrori, le guerre e la pulizia etnica. Pertanto, il popolo serbo è con il popolo della Palestina e con la sua giusta lotta!
Lunga vita all’amicizia serbo-palestinese!
Palestina Stato! – Il Kosovo è Serbia!
Segreteria del Nuovo Partito Comunista di Jugoslavia,
Belgrado, 27.03.2025.
BALCANI: Gli eredi dell’ex Jugoslavia e il riconoscimento della Palestina
Francesco Cortese 10 Luglio 2024
Martedì 4 giugno, la Slovenia è diventata l’ultimo paese membro dell’Unione Europea a riconoscere lo stato di Palestina, appena una settimana dopo che Spagna, Norvegia e Irlanda avevano preso una decisione analoga, scatenando la frustrazione israeliana che aveva portato al ritiro dei gli ambasciatori dello stato ebraico da tutti e tre gli stati.
Per quanto riguarda gli stati successori della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia(SFRJ), la Palestina è stata riconosciuta da Serbia, Bosnia Erzegovina, Montenegro e ora Slovenia, mentre Croazia, Macedonia del Nord e Kosovo non hanno instaurato relazioni diplomatiche con lo stato guidato da Mahmoud Abbas.
Considerando che la Jugoslavia aveva riconosciuto lo stato di Israele appena dopo la sua nascita, anche se poi aveva tagliato ogni relazione diplomatica in seguito alla guerra dei sei giorni del 1967, ed aveva stabilito piene relazioni diplomatiche con la Palestina nel 1989, da dove deriva il diverso approccio delle repubbliche nate dal suo scioglimento?
Serbia e Kosovo
La Serbia ha mantenuto nei confronti di Israele e Palestina la stessa politica di doppio riconoscimento come naturale proseguimento delle azioni della SFRJ ed è riuscita, dagli anni ’90 fino ad oggi, a mantenere relazioni positive con entrambi. Con le guerre di dissoluzione jugoslave che avevano portato il regime di Slobodan Milošević ad un marcato isolamento internazionale, il governo di Belgrado aveva deciso di rinnovare le relazioni diplomatiche con Israele nel 1991, quasi 25 anni dopo la guerra dei sei giorni, e di aprire un’ambasciata a Tel Aviv. Inoltre, è da evidenziare l’approccio piuttosto distaccato sulla crisi del Kosovo nel 1998-99 dell’allora governo israeliano, i cui rappresentanti non avevano condiviso la decisione della NATO di intervenire ed erano piuttosto restii nel riconoscere la natura genocida delle azioni dei militari e paramilitari serbi. Questa politica fu confermata anche nel 2008, quando la dichiarazione di indipendenza del Kosovo non venne riconosciuta da Israele, anche per timore che un eventuale riconoscimento potesse avere un impatto sulle richieste palestinesi.
Nel 2020, sotto pressione degli Stati Uniti di Donald Trump, Israele ha radicalmente cambiato il suo approccio e riconosciuto l’indipendenza del Kosovo, primo paese a maggioranza musulmana ed il quarto a livello mondiale ad aprire la propria ambasciata a Gerusalemme. La decisione fu giustificata da Israele affermando che la situazione di Kosovo e Palestina non sono paragonabili, visto che il primo rispetta tutti i parametri del diritto internazionale per quanto riguarda la statualità e la dichiarazione unilaterale di indipendenza non ha violato alcuna norma di diritto internazionale come stabilito dalla Corte Internazionale di Giustizia. Questo sviluppo aveva provocato il malcontento della Serbia, che aveva quindi deciso di bloccare il trasferimento della propria ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme precedentemente annunciato dal presidente serbo Aleksandar Vučić. Ciononostante, le relazioni tra Belgrado e lo stato ebraico rimangono buone soprattutto per ragioni economiche, come dimostrato dalla netta condanna di Vučić agli attacchi del 7 ottobre, l’exportdi armi serbe verso Israele e l’iniziale astensione serba nella prima votazione per un immediato cessate il fuoco in seno all’Assemblea Generale ONU.
Dall’altro lato le relazioni tra Palestina e Kosovo non sono mai nate, per un netto rifiuto dell’Autorità Palestinese di riconoscere la dichiarazione di indipendenza del 2008. Da parte palestinese, infatti, il Kosovo è visto come un prodotto dell’espansionismo statunitense, e viene criticato il doppio standard occidentale sulle due questioni, sostenendo che la Palestina non ha niente in meno del Kosovo e la propria indipendenza avrebbe dovuto essere riconosciuta tempo fa con l’appoggio degli Stati Uniti e l’Unione Europea.
Bosnia Erzegovina e Montenegro
Sarajevo e Podgorica e hanno instaurato relazioni diplomatiche con la Palestina subito dopo la propria indipendenza, rispettivamente nel 1992 e nel 2006, proseguendo la politica della SFRJ nel primo caso e dello stato di Serbia e Montenegro nel secondo. Entrambi i paesi hanno votato fin da subito per un cessate il fuoco immediato nella striscia di Gaza in seno all’Assemblea Generale ONU, sede presso cui si è tenuta anche la votazione per stabilire l’11 luglio come giorno del ricordo del genocidio di Srebrenica, cui Israele non ha partecipato.
Con questa scelta Israele si è discostato in modo netto dal blocco occidentale e ha fatto crescere in Bosnia Erzegovina il sentimento di solidarietà alla causa palestinese, già forte anche per i legami storici e religiosi, e ulteriormente rinforzato dalle paroledell’Ambasciatore israeliano a Belgrado che ad aprile aveva convintamente affermato che quello di Srebrenica non poteva essere definito come un genocidio, lasciando trasparire la contrarietà di Israele alla risoluzione sponsorizzata da più di trenta paesi.
Macedonia del Nord e Croazia
Macedonia del Nord e Croazia, invece, non hanno mai riconosciuto lo stato di Palestina, né hanno mai intrapreso relazioni diplomatiche, adottando di fatto una posizione pro Israele. L’inizio delle relazioni diplomatiche tra quest’ultimo e la Croazia è stato tutt’altro che facile e frutto di intensi negoziati. Infatti, tra l’indipendenza dell’ex repubblica jugoslava e la piena definizione di relazioni diplomatiche passarono ben sei anni: dal 1991 al 1997. Problematico, infatti, era il rapporto tra Franjo Tuđman, presidente dall’indipendenza fino alla sua morte nel 1999, e le autorità israeliane, che accusavano di antisemitismo e filonazismo il leader croato. Fu soltanto dopo scuse pubbliche del governo e del presidente croato per i crimini commessi durante la seconda guerra mondiale che i negoziati andarono a buon fine. Dopo la definizione delle relazioni diplomatiche, il ministro degli Esteri croato Mate Granić andò in visita ufficiale in Israele, mentre Tudman non vi si recò mai.
In conclusione, i paesi dell’ex Jugoslavia, che nel 1947 si era fatta promotrice in seno alle Nazioni Unite di un piano che portasse alla creazione di un unico stato federale di Israele e Palestina, hanno quindi adottato politiche diverse alla questione israelo-palestinese, a volte in contrasto con quelle della repubblica federale di cui sono gli eredi internazionalmente riconosciuti. Politiche più autonome rispetto alla linea di Belgrado erano già iniziate a nascere con la morte di Tito, ma sono diventate evidenti negli anni ’90.
Israele-Palestina: cos’è e come nasce la “soluzione a un solo stato”
di Giorgio Fruscione
12 Mar 2024
La creazione di due stati è il mantra con cui la comunità internazionale pensa ancora di risolvere il conflitto in Medio Oriente, ma un’altra possibile soluzione è stata formulata da tempo.
Mentre l’offensiva israeliana avanza nella Striscia di Gaza e sono oltre 30mila i palestinesi uccisi, la diplomazia internazionale sta rispolverando un vecchio mantra della questione palestinese: la soluzione a due stati. Una soluzione di cui si conosce l’obiettivo finale, ovvero uno stato palestinese, cui l’attuale governo d’estrema destra israeliano si oppone, ma di cui rimangono astratte le caratteristiche di base: chi ne controllerà i confini? Quale sarà la capitale? I palestinesi avranno un esercito regolare?
La vera domanda, oggi, è se questa strada sia ancora percorribile. Perché gli eventi successivi al 7 ottobre hanno di fatto compromesso la formula dei due stati per due popoli: le violenze di Hamas, la sproporzionata risposta israeliana e la punizione collettiva di cui sono vittime i palestinesi – non solo a Gaza e non solo dallo scorso ottobre – rende questa soluzione diplomatica una mera illusione. Le coscienze collettive dei due popoli saranno per sempre corrotte da quanto accaduto negli ultimi cinque mesi. Tuttavia, se l’attuazione degli Accordi di Oslo sembra ormai del tutto naufragata, l’alternativa non può essere la continuazione di combattimenti il cui obiettivo sembra la totale eliminazione dell’altro, praticabile solo correndo il rischio di un altro genocidio. Ciò su cui bisognerebbe tornare a riflettere sono nuove forme di coesistenza e convivenza, superando anche la formula dei due stati.
Due popoli, due stati-nazione
Quello che ha a lungo complicato la questione geopolitica più spinosa dal secondo dopoguerra è la convinzione che in Asia occidentale si possano facilmente costituire stati nazionali sul modello europeo del secolo scorso. Un paradosso se si pensa che Israele e la soluzione a due stati nacquero meno di tre anni dopo la Seconda guerra mondiale che vide in Europa la smania distruttiva degli stati-nazione, che proprio contro la popolazione ebraica raggiunse l’apice delle sue atrocità con la Shoah. Eppure, da allora Israele si è sviluppato come uno stato nazionale che in virtù della legge del ritorno del 1950 concede la cittadinanza a tutti gli ebrei del mondo, e dal 1970 a chiunque abbia discendenze ebraiche. Uno sviluppo oggi portato avanti dalla retorica etno-nazionalista del premier Benjamin Netanyahu, per cui “Israele non è il paese dei suoi cittadini, ma lo stato-nazione del popolo ebraico, e di nessun altro”. Una condizione che, con la legge fondamentale del 2018 che ribadisce la natura ebraica d’Israele, discrimina formalmente i palestinesi d’Israele e macchia la democrazia israeliana. Il contraltare della legge del ritorno sarebbe il diritto dei rifugiati palestinesi vittime della Nakba a tornare nelle case da cui furono cacciati nel 1948 e mai garantito dai governi israeliani.
Per 75 anni, infatti, il principio di autodeterminazione dei due popoli si è sviluppato unicamente sul concetto di superiorità di una nazione sull’altra, a discapito di quello di cittadinanza, generando ingiustizie e radicalismo religioso in un territorio per secoli caratterizzato da un tessuto sociale multietnico e multiconfessionale. Inoltre, l’idea dei due stati per due popoli è stata de factoaccompagnata da una crescente predominanza militare israeliana e la mancata accettazione di questa sottomissione da parte palestinese viene oggi percepita come un estremismo per il quale la responsabilità sarebbe collettiva.
La convinzione di poter istituire due stati nella vecchia “Palestina mandataria” fu il risultato di un lungo lavoro diplomatico in seno alle Nazioni Unite, cui il Regno Unito aveva rimesso il Mandato ricevuto dalla Società delle Nazioni nel 1922. La commissione incaricata di trovare una soluzione, l’UNSCOP, era composta da 11 paesi considerati neutrali: Australia, Canada, Cecoslovacchia, Guatemala, India, Iran, Paesi Bassi, Perù, Svezia, Uruguay, Jugoslavia.
I lavori dell’UNSCOP terminarono con la proposta di spartizione: uno stato ebraico sul 55% del territorio, e il restante 45% – le zone meno fertili, suddivise in tre parti e senza continuità territoriale – agli arabi. Questa era la cosiddetta “proposta di maggioranza”, quella che il 29 novembre 1947 sarebbe stata votata favorevolmente dall’Assemblea Generale sancendo il diritto a uno stato ebraico sul territorio del vecchio mandato britannico. La spartizione fu rifiutata dai paesi arabi e quando Israele si proclamò indipendente nel maggio del 1948, scoppiò la prima guerra arabo-israeliana.
La proposta di minoranza
Tuttavia, ciò che da allora è rimasto negli scaffali degli archivi dell’ONU è un’altra proposta dell’UNSCOP, quella “di minoranza”, ovvero di uno Stato Federale di Palestina, comprendente due entità autonome, cioè uno stato arabo e uno ebraico, con una sola capitale, Gerusalemme, suddivisa in due sobborghi. Si trattava di uno stato binazionale, pensato per armonizzare gli interessi e le aspirazioni indipendentiste delle popolazioni araba ed ebraica, considerate ugualmente legittime poiché i due popoli avevano “un’associazione storica con la Palestina”.
I sostenitori di questa proposta erano l’India, l’Iran e la Jugoslavia. Particolare fuil ruolo della Jugoslavia attraverso il delegato Vladimir Simic, che in patria era presidente del parlamento federale, ovvero il più alto organo rappresentativo dei popoli costituenti del paese e massima espressione del carattere multinazionale e multiconfessionale della Jugoslavia risorta dalla guerra fratricida col motto Unione e Fratellanza. La diplomazia jugoslava considerava possibile applicare lo stesso modello federale alla Palestina. Un modello che Simic dettagliò in 12mila parole all’interno del report finale dell’UNSCOP. La proposta prevedeva la creazione di un regime transitorio guidato dalle Nazioni Unite che garantisse l’uguaglianza individuale, tutelando i diritti civili, politici, religiosi e culturali di tutti i cittadini della Palestina. Un’uguaglianza che si sarebbe dovuta applicare anche ai due popoli costituenti in quanto tali, senza gli sbilanciamenti sanciti coi diritti di maggioranza e di tutela della minoranza, come sarebbe invece risultato con la proposta di spartizione. Secondo l’interpretazione di Simic, l’elemento essenziale a garanzia dello stato comune per arabi ed ebrei era l’unità economica del paese, da raggiungere attraverso un’emancipazione dal basso e forme di autogoverno che assicurassero la cooperazione dei due popoli.
La Jugoslavia socialista aveva una forte spinta antimperialista e accusava il colonialismo britannico di avere enormi responsabilità per la situazione in Palestina, dove impose un mandato militare trascurando educazione e salute pubblica, sistemi che invece avrebbero potuto contribuire alla convivenza pacifica tra i due popoli. “Se il Governo Mandatario avesse sviluppato istituzioni di autogoverno, arabi ed ebrei sarebbero stati maggiormente preparati a cooperare”, come dichiarò Simic in seno all’UNSCOP. Secondo il delegato jugoslavo, infatti, gli aumenti costanti delle spese militari in Palestina avevano impedito, invece che promuovere, una cooperazione economica e sociale tra arabi ed ebrei.
Insieme alla critica anticolonialista, gli jugoslavi sostenevano le rivendicazioni del diritto all’autodeterminazione dei due popoli. In virtù delle deportazioni e dei massacri degli ebrei jugoslavi durante la guerra – specie nello Stato Indipendente Croato controllato dall’Asse, nonché nella Serbia collaborazionista di Milan Nedic, con cui Belgrado fu la prima capitale europea a essere dichiarata “judenfrei” – la Jugoslavia si sentiva particolarmente in debito nei confronti della questione ebraica. Alcuni stretti collaboratori del Maresciallo Tito, come Mosa Pijade, erano ebrei, e a guerra finita ne favorirono l’emigrazione in Palestina. Allo stesso tempo, però, i comunisti jugoslavi riconoscevano anche le aspirazioni anticoloniali palestinesi, nella consapevolezza che nessun paese arabo della regione avrebbe accettato la spartizione della Palestina.
L’impossibile soluzione a due stati
Da allora, i due popoli hanno combattuto molte guerre, e Israele ha condotto diverse offensive contro la Striscia di Gaza, inclusa quella in corso e per la quale la Corte internazionale di giustizia (CIG) ha ritenuto plausibile che le azioni di Israele possano portare a un genocidio. Un’offensiva, quella attuale, che non è che l’ultimo capitolo di una storia che da 57 anni contrappone occupante e occupato, in totale violazione di risoluzioni ONU e sentenze della CIG, portando i Territori Palestinesi Occupati a una condizione di discriminazione tale da essere definita “apartheid” da diverse organizzazioni per i diritti umani.
Questi lunghi decenni di violenza e privazione di diritti hanno contribuito a diffondere l’idea che la convivenza tra i due popoli sia oramai impossibile.
In realtà, l’attuale situazione minaccia ancor di più l’orizzonte della soluzione a due stati. Induriti da anni di retorica relativa alla sicurezza nazionale e da uno stato altamente militarizzato, la maggioranza degli israeliani difficilmente potrebbe accettare oggi di vivere a fianco a uno stato palestinese dotato di esercito proprio. Dall’altro lato, i palestinesi sono stati per anni illusi di ottenere uno stato indipendente e oggi sono sempre più isolati e internazionalmente percepiti come un manipolo di terroristi: un’interpretazione che mina il loro diritto all’autodeterminazione. Persino lo slogan che rivendica la libertà palestinese “from the river to the sea” viene spesso inteso come un’intimidazione antisemita, quando piuttosto ricorda che i palestinesi, che vivono tra il Giordano e il Mediterraneo, non sono liberi: non lo sono nei territori occupati in Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est, e non lo sono nemmeno coloro che vivono in Israele, discriminati su base nazionale.
Per 75 anni, la violenza tra israeliani e palestinesi è stata ciclica e intervallata da diversi tentativi diplomatici di imporre la pace attraverso la soluzione a due stati. Tuttavia – come sosteneva nel 1999 l’intellettuale palestinese Edward Said, sostenitore di uno stato per due popoli – nessuna delle due parti ha avuto un’opzione militare praticabile contro l’altra, il che è il motivo per cui entrambe hanno optato per una pace, quella degli Accordi di Oslo del 1993, che ha tentato così palesemente di realizzare ciò che la guerra non era riuscita a fare. Inoltre, le politiche di Netanyahu, il più longevo premier d’Israele, hanno di fatto seppellito la soluzione a due stati e oggi – come sostiene l’editorialista di Haaretz Gideon Levy – rimangono solo due possibilità: “Un’altra Nakba o uno stato per due popoli”. Nel primo caso, quello cui sembra tendere oggi il governo israeliano, il risultato sarebbe una sorta di über nazione, dove i diritti sono garantiti su base etnica e in cui la legittimità dello stato nazionale israeliano è antitetica al diritto internazionale. Il secondo scenario, invece, si potrebbe profilare con uno stato federale, dove i diritti di cittadinanza prevalgono su quelli nazionali. Uno scenario forse ambizioso e per il quale – spiegava Said – bisognerebbe “ammorbidire, diminuire e infine rinunciare allo status speciale di un popolo a scapito dell’altro. La Legge del Ritorno per gli ebrei e il diritto al ritorno per i rifugiati palestinesi devono essere considerati e rifinite insieme”. Uno stato comune dove prevalgono le identità civiche e trasversali di ebrei e palestinesi richiederebbe un reciproco sforzo identitario a sostegno del nuovo equilibrio demografico: la rinuncia ad essere uno stato fondato esclusivamente sull’identità ebraica da un lato, e, dall’altro, rinunciare all’idea che la libertà palestinese possa avvenire solo al prezzo di esodi e politiche che ripristino la demografia di cent’anni fa.
L’alternativa alle due opzioni è quanto vediamo da almeno vent’anni: il mantenimento di uno status quo a livello di diplomazia internazionale, utile solo a preservare un regime d’occupazione che espande colonie illegali, e di una prevaricazione di una parte sull’altra a colpi di devastanti offensive militari. E che, come dimostra quanto accaduto lo scorso 7 ottobre, non può che deflagrare in altra frustrazione collettiva, sete di vendetta e quindi atti di terrorismo. Quanto più persistono gli attuali modelli di insediamento israeliano e del confinamento palestinese che ne alimenta lo spirito di resistenza, tanto meno è probabile che ci sia una reale sicurezza per entrambe le parti. Infine, l’illusione che la sottomissione e la disuguaglianza siano prima o poi accettate e normalizzate resta, appunto, un’illusione.
Oggi, quello di uno stato binazionale per israeliani e palestinesi rimane una chimera geopolitica per il semplice fatto di non essere mai stato debitamente preso in considerazione. Un’idea che quasi un secolo fa era attivamente promossa da diversi intellettuali ebrei, come Hannah Arendt, Martin Buber e Judah Magnes, prima che il Sionismo prendesse il sopravvento sugli eventi e costringesse quest’opzione ai margini delle menti dei sognatori e degli operatori di pace. Un’opzione che non sarebbe inedita nella sua sperimentazione, come dimostra il Sudafrica post-apartheid, ma che – rifletteva sempre Said – richiede “una volontà innovativa, audace e teorica per superare l’arido stallo dell’affermazione e del rifiuto”. Una volta effettuato il riconoscimento iniziale dell’altro come uguale, la strada da seguire diventerebbe non solo possibile ma anche attraente.
di Daniele Luttazzi – nonc’èdiche (Fatto Quotidiano)
Primo Maggio 2024
In occasione delle celebrazioni per il 25 Aprile alcuni commentatori, di destra ma non solo, hanno stigmatizzato la presenza di giovani filo-palestinesi e le loro proteste contro i crimini di guerra di Netanyahu. Ne hanno contestata l’opportunità: cosa c’entra la protesta contro il genocidio in corso a Gaza con l’anniversario della Liberazione italiana dal nazifascismo? Ma il 25 Aprile si ricordano, con l’evento storico, i valori che lo resero possibile, senza i quali la festa sarebbe mero cosplay.
La protesta contro i crimini di Israele non è diversa dalla protesta contro il golpe in Cile o contro la Grecia dei Colonnelli, nelle feste di tanti anni fa: è la testimonianza che i valori grazie ai quali la Resistenza fu possibile (libertà, uguaglianza, progresso) sono ancora vivi nel nostro Paese. Dunque quella testimonianza è opportunissima; e oggi è addirittura necessaria, in un momento storico in cui il capitale, per risolvere una delle sue crisi cicliche, sta riportando in auge le destre fasciste e guerrafondaie, che tanto hanno già brigato contro i diritti dei lavoratori in tutto il globo terracqueo. Né va dimenticato il vulnus del 25 aprile 2022: a Milano sfilarono ucraini col simbolo del battaglione Azov. Lo permise Cenati (Anpi Milano), che poi si dimise in polemica con l’Anpi nazionale perché “è improprio parlare di genocidio a Gaza” (Se credete che Zelensky sia un partigiano che lotta per la libertà guardate troppi tg italiani). Cose che si sanno; dunque i propagandisti di destra, barando, hanno usato altri due argomenti. Il primo è rinfacciare ai filopalestinesi che il Gran Muftì di Gerusalemme era palestinese e filonazista (come a dire: avete anche voi le vostre colpe; e se ci state voi, il 25 Aprile, possono starci anche i filoisraeliani). Ma questo argomento può far presa solo su chi non sa la storia.
Come spiega Lorenzo Kamel (t.ly/-3EPY), il Gran Muftì di Gerusalemme non era il legittimo rappresentante del popolo palestinese: fu imposto al popolo palestinese da Londra. Concorda su Haaretz lo storico Mustafa Abbasi: “Nel 1937 il Gran Muftì lasciò la Palestina per 10 anni. Il popolo non lo vedeva come leader.” Anche Netanyahu, nel 2015, usò l’argomento “Gran Muftì nazista” contro i palestinesi; ma Abbasi ricorda che 12 mila palestinesi, fra cui suo nonno, non diedero ascolto al Gran Mufti e combatterono con gli inglesi contro i nazisti fin dall’inizio della guerra: “Non ci fu una Brigata Palestinese perché i combattenti palestinesi, a differenza degli ebrei della Brigata Ebraica, non avevano una chiara agenda nazionalista” (t.ly/1nAxl). Valerio Minnella smonta il sofisma di destra: “Gli ebrei sono forse tutti nazisti perché il gruppo terroristico sionista Lehi si propose come alleato dei nazisti?”. Il secondo argomento dei propagandisti di destra riguarda il ruolo della Brigata Ebraica nella guerra di liberazione: lo esaltano, senza descriverlo. Lo riassume Alberto Fazolo su Contropiano (t.ly/rrZoP): “La Brigata Ebraica rappresenta il contributo militare degli ebrei di Palestina nella Seconda guerra mondiale.
Questi rimasero inattivi, praticamente, fino alla fine del conflitto. Quando si prospettò la possibilità di costituire lo Stato d’Israele, e per farlo serviva partecipare alla guerra, un numero simbolico di uomini fu mandato ad arruolarsi nell’esercito inglese. Arrivarono al fronte quando la guerra stava finendo, dopo la liberazione del campo di Auschwitz (non contribuirono a porre fine all’Olocausto); in Italia si limitarono a inseguire i tedeschi in ritirata, combattendo per un mese. Pur non facendo quasi nulla, si intestarono la vittoria e la memoria. In tempi recenti la Brigata Ebraica viene spacciata per la principale paladina della lotta antifascista e in difesa degli ebrei: una strumentalizzazione revisionista per legittimare l’azione passata e presente d’Israele”.
www.resistenze.org – popoli resistenti – israele – 06-04-24 – n. 896
Chris Bambery * | midwesternmarx.com
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare
26/03/2024
Se c’è un leader che l’attuale primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu segue, questo è Ze’ev Jabotinsky, il fondatore del sionismo revisionista, che costituisce la base del partito Likud.
Dal 2005, Israele ha una Giornata della memoria in onore di Jabotinsky (29 Tammuz, il giorno della sua morte il 4 agosto 1940, secondo il calendario ebraico). In occasione di una celebrazione del 2017, Netanyahu ha dichiarato: “Ho le opere di Jabotinsky sulla mensola e le leggo spesso”. Ha ricordato al pubblico che conserva la spada del leader sionista nel suo ufficio.
In occasione del memoriale del 2023, Netanyahu ha dichiarato:
“Cento anni dopo che il ‘muro di ferro’ [iron wall] è stato impresso negli scritti di Jabotinsky, continuiamo ad attuare con successo questi principi. Dico ‘continuiamo’ perché la necessità di ergersi come un potente muro di ferro contro i nostri nemici è stata adottata da ogni Governo di Israele, sia di destra che di sinistra. Stiamo sviluppando strumenti difensivi e offensivi contro coloro che cercano di danneggiarci, e posso dirvi con certezza che non fanno distinzione tra questo o quel campo tra noi. Chiunque cerchi di danneggiarci su uno o più fronti, deve sapere che ne pagherà il prezzo. Continueremo ad opporci, con forza intransigente, agli sforzi dell’Iran di sviluppare un arsenale nucleare, e resteremo fermi contro i suoi sforzi per sviluppare fronti terroristici ai nostri confini – a Gaza, in Giudea e Samaria [Cisgiordania, ndt], in Siria e in Libano.”
Questo avveniva in un momento di crescente tensione nella Cisgiordania occupata, dove in quell’anno gli israeliani avrebbero ucciso oltre 300 palestinesi, a partire da molto prima dell’attacco di Hamas del 7 ottobre al sud di Israele. Il ‘Muro di ferro’, che Netanyahu invoca, era un saggio del 1923 di Jabotinsky, in cui sosteneva che uno Stato ebraico poteva essere creato solo da una posizione di forza militare schiacciante, dimostrando con le armi ai palestinesi e agli Stati arabi che il sionismo non poteva essere sconfitto. Oggi sottolinea la posizione del governo di coalizione guidato da Netanyahu su come rispondere all’attacco di Hamas del 7 ottobre.
Sionismo di estrema destra
Il sionismo revisionista è stato fondato da Jabotinsky dopo aver rifiutato l’idea che la Gran Bretagna avrebbe concesso ai sionisti uno Stato ebraico, e si è invece schierato per la creazione di uno Stato e di un esercito ebraico. Durante la Prima guerra mondiale aveva fondato tre battaglioni della Legione ebraica, parte dei Fucilieri del Re dell’esercito britannico in Palestina, che combatterono nell’ultima parte della conquista della Palestina e della Siria da parte del Generale Allenby. Furono sciolti dai britannici nel 1920, poiché erano diventati effettivamente una milizia sionista impegnata nei combattimenti contro gli arabi. Sarebbero diventati la spina dorsale dell’Haganah, il principale gruppo armato sionista protagonista della Nakba del 1948.
Voleva che tutti gli ebrei europei emigrassero in Palestina e che lo Stato ebraico si estendesse a entrambe le sponde del fiume Giordano. Lo storico israeliano Benny Morris scrive:
“Nel 1925 fondò il Partito Revisionista (così chiamato perché cercava di ‘rivedere’ i termini del Mandato, in particolare per prevedere la reinclusione della Transgiordania [Giordania] nella Palestina mandataria). Egli creò anche il movimento giovanile del partito, Betar, che era caratterizzato da un aspetto (uniformi marrone scuro), da attività (esercitazioni in piazza d’armi e con armi da fuoco), da slogan e ideologia (“nel fuoco e nel sangue rinascerà la Giudea”) e da una struttura (una rigida gerarchia) di tipo militare, a volte direi fascista. Jabotinsky ammirava Mussolini e il suo movimento e cercò ripetutamente l’affiliazione e l’assistenza di Roma”.
Jabotinsky riassunse le sue convinzioni affermando:
“Non c’è giustizia, non c’è legge e non c’è Dio in cielo, ma solo un’unica legge che decide e sostituisce tutti i regolamenti”.
Jabotinsky riteneva che gli arabi fossero implacabilmente ostili alla creazione di uno Stato ebraico e, di conseguenza, concludeva:
“Non possiamo promettere alcuna ricompensa né agli arabi della Palestina, né agli arabi fuori dalla Palestina. Un accordo volontario è irraggiungibile. Pertanto, coloro che considerano l’accordo con gli arabi come una condizione indispensabile del sionismo, devono ammettere a se stessi che questa condizione non può essere raggiunta e che quindi dobbiamo rinunciare al sionismo. Dobbiamo sospendere i nostri sforzi di insediamento o continuarli senza prestare attenzione all’umore dei nativi. L’insediamento può così svilupparsi sotto la protezione di una forza che non dipende dalla popolazione locale, dietro un muro di ferro che questa non potrà abbattere”.
Nel suo saggio del 1923 intitolato “Il muro di ferro”, Jabotinsky sostenne che gli arabi palestinesi non avrebbero accettato una maggioranza ebraica in Palestina e che:
“La colonizzazione sionista, anche quella più limitata, deve essere terminata o portata avanti in spregio alla volontà della popolazione nativa. Questa colonizzazione può, quindi, continuare e svilupparsi solo sotto la protezione di una forza indipendente dalla popolazione locale, un muro di ferro che la popolazione nativa non può sfondare. Questa è, in toto, la nostra politica nei confronti degli arabi. Formularla in altro modo sarebbe solo ipocrisia”.
Ha poi spiegato le sue differenze con Chaim Weizmann e David Ben-Gurion, capi dell’Agenzia ebraica, il proto-governo sionista, in questo modo: “Uno preferisce un muro di ferro di baionette ebraiche, l’altro propone un muro di ferro di baionette britanniche…”.
In effetti, nel 1936, dopo la grande Rivolta araba contro l’immigrazione sionista e il dominio britannico, Ben-Gurion era giunto a pensare allo stesso modo.
Entrambi si resero conto che gli arabi avrebbero continuato a combattere fino a quando avrebbero mantenuto la speranza di impedire la conquista del Paese da parte degli ebrei. Ed entrambi erano giunti alla conclusione che solo l’insuperabile forza militare ebraica avrebbe alla fine fatto disperare gli arabi e li avrebbe portati a scendere a patti con uno Stato ebraico in Palestina. Ben-Gurion non usò la terminologia del muro di ferro, ma la sua analisi e le sue conclusioni erano praticamente identiche a quelle di Jabotinsky.
Nel 1931, Jabotinsky fondò l’Irgun (Organizzazione militare nazionale in terra d’Israele), una milizia armata separata dalla più tradizionale Haganah, che secondo Jabotinsky doveva combattere sia le autorità britanniche che i palestinesi che resistevano alla colonizzazione. Nel 1937, passò dalla difesa dello Yishuv (comunità ebraica in Palestina) agli attacchi terroristici contro i Palestinesi.
Nel dicembre 1937, un membro dell’Irgun lanciò una bomba a mano contro un mercato di Gerusalemme, uccidendo e ferendo decine di persone. Ad Haifa, nel marzo 1938, membri dell’Irgun e di Lehi (la banda Stern) lanciarono granate nel mercato, uccidendone 18 e ferendone 38. Più tardi nello stesso anno, sempre ad Haifa, l’Irgun fece esplodere dei veicoli con trappole esplosive nel mercato, uccidendone 21 persone e ferendone 52.
Le due operazioni per le quali l’Irgun è più conosciuto sono il bombardamento dell’Hotel King David a Gerusalemme, sede dell’amministrazione britannica, in cui furono uccise 91 persone, arabi, ebrei e britannici, e il massacro di Deir Yassin dell’aprile 1948, che uccise almeno 107 abitanti di villaggi arabi palestinesi, tra cui donne e bambini, compiuto insieme a un altro gruppo terroristico Lehi, o la Banda Stern. In quel periodo, Jabotinsky era già morto, essendo deceduto per un attacco cardiaco durante una visita negli Stati Uniti nell’agosto del 1940.
Il padre di Benjamin Netanyahu, Benzion, era un attivista del movimento revisionista di Jabotinsky, editore delle sue pubblicazioni e segretario privato del leader. Nel 1993, anno in cui Benjamin Netanyahu fu eletto leader del Likud, pubblicò anche un libro, “Un posto tra le nazioni: Israele e il mondo”. Il libro cercava di dimostrare che non erano gli ebrei ad aver preso la terra dagli arabi, ma gli arabi ad averla presa dagli ebrei. Netanyahu vedeva le relazioni di Israele con il mondo arabo come un conflitto permanente, come una lotta senza fine tra le forze della luce e le forze delle tenebre. Ha affermato:
“La violenza è onnipresente nella vita politica di tutti i Paesi arabi. È il metodo principale per affrontare gli avversari, sia stranieri che interni, sia arabi che non arabi”.
Per Netanyahu, non c’era alcun diritto all’autodeterminazione per i palestinesi e non poteva esserci alcun compromesso con loro, perché erano pronti a liquidare Israele. In un capitolo intitolato “Il muro”, sostiene che Israele deve espandere la sua posizione militare nelle alture del Golan e in quella che lui chiama Giudea e Samaria – la Cisgiordania – ed esercitare un controllo militare su quasi tutto il territorio a ovest del fiume Giordano.
La sua conclusione è la soluzione di uno Stato unico, dal fiume al mare:
“Suddividere questa terra in due nazioni instabili e insicure, cercare di difendere ciò che è indifendibile, significa invitare al disastro. Separare la Giudea e la Samaria da Israele significa dividere Israele”.
In risposta agli Accordi di Oslo, il 5 settembre 1993 scrisse un articolo per il New York Times, intitolato “Peace In Our Time” (Pace nel nostro tempo), facendo riferimento all’affermazione di Neville Chamberlain al suo ritorno da Monaco nel settembre 1938, dopo aver accettato di dividere la Cecoslovacchia con Hitler. In esso respinse l’intera proposta di uno Stato palestinese in Cisgiordania, affermando: “Uno Stato dell’OLP in Cisgiordania priverebbe lo Stato ebraico del muro difensivo delle montagne della Giudea e della Samaria conquistato nella Guerra dei Sei Giorni, ricreando un Paese largo dieci miglia, aperto agli eserciti invasori provenienti da est”. Ha poi aggiunto che l’OLP avrebbe usato questo Stato per fomentare un assalto arabo alleato contro uno Stato ebraico ridotto. Aggiungendo, “per due decenni Yasir Arafat ha sostenuto questo piano”.
Nel 1996 Netanyahu dichiarava senza mezzi termini: “La forza è una condizione per la pace. Solo un forte profilo di deterrenza può preservare e stabilizzare la pace”. Dopo la sua prima vittoria elettorale, ha dichiarato: “Il governo si opporrà alla creazione di uno Stato palestinese indipendente e si opporrà al ‘diritto al ritorno’ della popolazione araba nelle parti della Terra d’Israele a ovest del Giordano”. Aggiungeva poi che il suo governo “agirà per consolidare e sviluppare l’impresa degli insediamenti” e che “Gerusalemme unita, la capitale di Israele… rimarrà per sempre sotto la sovranità israeliana”.
Oggi, Netanyahu è il primo ministro israeliano di più lunga data. La prima volta è salito al potere nel 1996 e ha svolto un mandato di tre anni prima di essere sostituito da Ehud Barak. Tornerà al potere nel 2009 e poi resterà in carica per quattordici degli ultimi quindici anni.
Netanyahu e il suo governo si oppongono alla creazione di uno Stato palestinese, sostengono l’espansione degli insediamenti ebraici illegali nei Territori palestinesi occupati, desiderano annettere la Cisgiordania e hanno introdotto una legge che nega l’uguaglianza alla minoranza palestinese autoctona nello Stato ebraico. Soprattutto, desiderano che i Palestinesi accettino di aver subito una sconfitta storica e accettino il controllo sionista della Palestina. La pace può solo seguire una sconfitta totale.
Spesso si dice che Netanyahu ha bisogno che l’attuale guerra a Gaza continui perché, se finisse, la sua carriera politica finirebbe con essa. C’è del vero in questo, ma non è l’unica ragione.
Il 7 ottobre, Israele ha perso ciò che Netanyahu e i suoi colleghi di gabinetto avevano di più caro: la deterrenza militare. Improvvisamente Israele è apparso vulnerabile. L’istinto del suo governo e dei comandanti dell’IDF è quello di infliggere la massima ritorsione al popolo di Gaza per dissuadere chiunque dal ripetere quell’attacco. Questo è il “muro di ferro” nell’Israele di oggi. Ma nonostante l’uccisione di oltre 30.000 persone, per la maggior parte civili e un terzo bambini, e lo spianamento di Gaza, si è visto che Netanyahu ha fallito nella sua promessa di “annientare” Hamas; sono ancora in piedi, resistono ancora.
A livello internazionale, la guerra a Gaza ha portato un’ondata di repulsione contro Netanyahu e sodali, ma non in Israele, dove i sondaggi e i risultati delle elezioni locali mostrano una grande maggioranza a sostegno del Likud e dei suoi alleati di destra. Netanyahu e i suoi sostenitori vogliono continuare la guerra e stanno pensando di estenderla affrontando Hezbollah, nella convinzione di poter ottenere una vittoria sfuggente per ripristinare la deterrenza. Si tratta, ovviamente, di una chimera ossessiva. Hezbollah è molto più forte e meglio armata di Hamas, ha avuto il tempo di prepararsi e, nel 2006, ha fatto sanguinare il naso all’IDF.
Netanyahu è guidato dalla sua fede nel ‘Muro di Ferro’. La sua è la logica al centro del sionismo. Ma il muro è arrugginito. Israele non sembra invincibile. L’orologio della storia sta ticchettando per il sionismo.
*) Chris Bambery è autore, attivista e commentatore politico e sostenitore di Rise, la coalizione della sinistra radicale in Scozia.
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