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Breve storia delle presunte stragi propedeutiche a guerre della NATO e colpi di stato

Vincenzo Brandi – 15/04/2025

 

Breve storia delle presunte stragi propedeutiche a guerre della NATO e colpi di stato

 

L’ultimo episodio venuto agli onori della cronaca ed opportunamente enfatizzato dai media occidentali, il bombardamento del Centro Congressi dell’Università di Sumy ad opera di due missili Iskander russi, è avvenuto – guarda caso – proprio quando si erano appena conclusi i colloqui tra il Presidente Putin e l’inviato di Trump, Steven Witkoff, tesi a creare le condizioni per una cessazione delle ostilità in Ucraina.

E stato chiarito che nell’edificio stava avvenendo una cerimonia militare di premiazione di un reparto che aveva partecipato all’invasione ucraina della regione russa di Kursk (vedi ad esempio l’articolo già pubblicato sull’Antidiplomatico da Marinella Mondaini e vari articoli di Agata Jacono). Successive dichiarazioni del Ministro russo degli Esteri Lavrov hanno precisato che nell’edificio erano presenti ufficiali ucraini e della NATO che sono stati colpiti.

Purtroppo era stata permessa la presenza di civili, in genere familiari dei militari, ed inoltre uno dei due missili è stato deviato dalla contraerea in una strada adiacente, per cui vi sono state anche vittime civili. Giustamente la deputata del parlamento ucraino Marjana Bezuhla ed il sindaco di una vicina cittadina, Artem Seminichim, hanno accusato le autorità militari di aver incautamente esposto civili ad un attacco dal fronte distante poco più di 20 chilometri. In realtà l’avvenimento appare come una provocazione, in cui militari e civili sono stati usati come esca per bloccare il difficile dialogo USA-Russia per il raggiungimento della pace.

Vi sono molti significativi precedenti in materia. Nel 1989, per giustificare il colpo di stato contro il Presidente rumeno Ceausescu (poi fucilato insieme alla moglie dopo un processo sommario), fu annunciata una gigantesca strage avvenuta a Timisoara. Successive inchieste hanno chiarito che non vi fu nessun massacro, e che per ingannare i (peraltro compiacenti) giornalisti occidentali erano stati riesumati decine di cadaveri dai cimiteri locali per poi presentarli come vittime di una strage.

Nel 1995, per giustificare l’intervento della NATO nella guerra civile bosniaca, fu fornita una versione molto faziosa e partigiana sui fatti avvenuti a Sebrenica, città occupata da milizie musulmane bosniache e da volontari di paesi arabi. Si disse che ben 8000 miliziani e civili, presi prigionieri dopo la conquista della città da parte delle milizie serbo bosniache, erano stati fucilati in massa e sepolti in grandi fosse comuni. In realtà, quando le milizie serbe entrarono in città tutti i civili si posero sotto la protezione delle truppe dell’ONU presenti, e nessuno fu toccato. I miliziani musulmani, distintisi in precedenza per aver massacrato migliaia di civili serbi dei villaggi vicini, fuggirono senza combattere, anche perché abbandonati dai loro comandanti fuggiti in elicottero (probabilmente anche per provocare una strage necessaria alla NATO per giustificare l’intervento). Molti tentarono di raggiungere le linee musulmane, scontrandosi con le truppe serbe della zona e quindi subendo molte perdite. Molti riuscirono a salvarsi e i loro nomi compaiono anni dopo negli elenchi dei votanti in Bosnia. Nessuna grande fossa comune fu mai trovata, come attestato anche dai rapporti dell’ONU (vedi ad esempio il “Dossier segreto” su Sebrenica pubblicato dalla Città del Sole e l’altro dossier pubblicato da Zambon).

Nel 1999, per giustificare l’attacco della NATO alla Jugoslavia, i cadaveri di molti guerriglieri (o forse, secondo molti osservatori, “terroristi”) kossovari dell’organizzazione indipendentista UCK caduti in combattimento furono ammassati nel villaggio di Racak per simulare una fucilazione in massa di militari e civili del Kossovo da parte delle truppe Jugoslave. Un esame dei corpi da parte di una equipe medico-legale ufficiale guidata da un’onesta dottoressa finlandese, Helena Rasta, stabilì che lo stato dei corpi ed il tipo di ferite erano incompatibili con l’ipotesi di una fucilazione. Si trattava di un’evidente montatura.

Ricordando solo di sfuggita il fin troppo noto inganno sulla presenza di armi di distruzione di massa in Iraq che giustificò l’aggressione del 2003, passiamo al 2011 quando l’intervento della NATO in Libia fu giustificato da presunte stragi di civili commesse dall’aviazione militare libica (poi completamente smentite). Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU varò la Risoluzione 1973 che istituiva una no-fly zone e altre misure necessarie a difendere i civili. Russia e Cina, che avrebbero potuto bloccare la risoluzione col veto, si astennero (per ingenuità o opportunismo?) e la Risoluzione servì come foglia di fico per l’aggressione aerea della NATO che provocò la caduta e l’assassinio di Gheddafi.

Nel marzo del 2022, quando sembrava che fosse stato raggiunto un accordo ad Istanbul per fermare la guerra in Ucraina, si verificò a Bucha un episodio molto probabilmente simile a quello di Racak. In una via della cittadina, sgombrata da poco dalle truppe russe in vista del prossimo accordo di pace, comparvero improvvisamente, dopo vari giorni in cui nessuno aveva visto nulla, una serie di cadaveri allineati. Un giornalista francese (peraltro molto contestato) testimoniò sul fatto di aver visto cadaveri di combattenti caduti, recuperati da zone intorno a Bucha dove si era combattuto, poi ammassati in quell’unica via. L’episodio servì al premier britannico, Boris Johnson per bloccare la trattativa di Istanbul per conto della NATO. La richiesta della Russia di un’inchiesta internazionale neutrale sull’accaduto è stata sempre respinta. Conosciamo solo la versione di Zelensky e della NATO, così come per i fatti di Sumy.

E’da augurarsi che il pur difficile dialogo tra USA e Russia sull’Ucraina non sia interrotto da queste provocazioni. Il fatto che il Presidente Trump abbia parlato di un “errore” da parte dei Russi, senza cavalcare lo sdegno internazionale indotto dai media scatenati, lascia sperare che il dialogo prosegua.

 

(il presente articolo è stato pubblicato anche su “L’AntiDiplomatico)

 

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