Gaza, Finita la tregua, riprende la pulizia etnica?

Combat COC – Rassegna del 02/12/2023

 

La tregua è finita, dopo appena sei giorni durante i quali la mattanza si è interrotta e un po’ di aiuti umanitari hanno portato un limitato sollievo agli sfollati di Gaza, calcolati ormai in 1,6 milioni su una popolazione anteguerra di 2,3 milioni. L’auspicio che la tregua si trasformasse in cessate il fuoco è miseramente fallito. Adesso inizia la infowar per decidere di chi è la colpa.

Per certo Netanyahu ha dichiarato senza mezzi termini che la guerra sarebbe proseguita, la tregua che gli è stata imposta dalle pressioni interne ed esterne per lui non è che un episodio. La sua base di massa (i coloni) e il gruppo di potere economico che lui rappresenta vogliono che la guerra prosegua. Quanto ad Hamas, è probabile che la tregua le abbia dato respiro, il rilascio delle donne e degli adolescenti palestinesi è stato un successo mediatico. Successo che se può favorire un progetto di insediamento politico di Hamas in Cisgiordania, non cancella i 16 mila morti a Gaza, destinati ad aumentare esponenzialmente, senza contare che nei 6 giorni della tregua Israele ha arrestato venti palestinesi per ogni rilasciato.

Il confronto militare Hamas-Israele non si dà, ovviamente, quindi l’unica strategia può essere l’allargamento del conflitto, che non sembra per ora trovare agganci fra i governi arabi e islamici cui l’esortazione è rivolta. Persino l’Iran, attualmente sospettata di essere dietro alla fine della tregua, ha sia direttamente che indirettamente (tramite il responsabile di Hezbollah Nasrallah) dichiarato che il massacro del 7 ottobre è stata una iniziativa del tutto autonoma di Hamas (finora anche il fronte filo-Israele ha preso per buone le dichiarazioni in tal senso, anche perché non hanno interesse ad estendere il conflitto).

Certo, al di là dei rammarichi ufficiali, tutte le cancellerie arabe e islamiche sono abbastanza soddisfatte di veder fallire la mediazione gestita da Qatar e Egitto su commissione Usa. Non dimentichiamo le profferte di mediazione della Turchia e di altri paesi dell’area. In cima ai pensieri di questi governi abituati a reprimere, arrestare, torturare, uccidere non ci sono certamente le sofferenze o le perdite dei civili palestinesi. Le loro mani grondano del sangue dei propri proletari e di quelli dei paesi dove scatenano le loro guerre per procura. Pensiamo a Erdogan e ai curdi; a bin Salman che ha fatto assassinare Kashoggi e provocato la guerra in Yemen (400 mila morti stimati) assieme al suo (ex?) avversario Khamenei, a capo di un regime brutale e reazionario; pensiamo ad al Sisi (che in Italia conosciamo per Regeni e Zaki), che ha ucciso e incarcerato in questi anni migliaia di oppositori politici… L’elenco sarebbe lungo.

Tuttavia se il conflitto continua e aumenta l’indignazione popolare contro Israele, tutti questi governi temono i movimenti di piazza che, accanto alla solidarietà per la Palestina potrebbero impugnare rivendicazioni sociali e politiche a uso interno.

Chi invece certamente viene messo in difficoltà dalla fine della tregua è Biden, il degno rappresentante di un imperialismo che ha contribuito allo scoppio della maggior parte delle guerre in giro per il mondo negli ultimi settant’anni.

I filo yankee di casa nostra osservano con preoccupazione che con il suo appoggio, senza se e senza ma, all’intervento militare israeliano, Biden si sta giocando il voto dei giovani e delle minoranze (neri, ispanici, ovviamente gli arabo americani e persino gli ebrei americani giovani). Già l’appoggio a Zelensky e il finanziamento della guerra ucraina avevano avviato il processo (nota 1). Nella opinione pubblica in generale sta aumentando l’ostilità verso una politica estera interventista e quindi onerosa. Non è solo l’uomo della strada che si chiede dove sta la coerenza fra un inizio di presidenza in cui si prospettava il disimpegno militare da quelle aree dove l’interesse americano non era preminente e l’oggi con l’impegno pro-Ucraina e il netto sostegno ad Israele in una situazione dalle prospettive incerte. Sarà interessante il dibattito durante l’imminente voto al Congresso Usa che dovrebbe approvare 14,5 miliardi di $ di aiuti militari a Israele.

Oggi il declino relativo degli Usa sul piano economico è evidente, resta l’indiscussa forza militare. Ma la capacità statunitense di incidere sul mondo attuale sempre più multipolare perde efficacia. Chi sperava nella “capacità “moderatrice “ di Biden rispetto all’esercizio della violenza israeliana si deve ricredere.

Mentre l’Onu mostra tutta la sua impotenza di fronte a un’emergenza umanitaria senza precedenti, la fine della tregua ripropone tutte le angosciose domande già poste sul futuro dei palestinesi di Gaza, ma anche della Cisgiordania e di Gerusalemme Est.

Chi può escludere che la prospettiva di una pulizia etnica radicale a Gaza non sia all’ordine del giorno? Con magari la connessa proposta (di Al Sisi) di trasferire nel deserto del Negev gli sfollati?

Ci sono molti modi per reagire a tutto questo. C’è chi non ascolta più il telegiornale perché è deprimente, chi si chiede perché parliamo solo della Palestina e “oscuriamo” i morti in Ucraina o in Sudan, chi manifesta con passione gridando “Palestina libera”. Manifestare si deve ed è molto importante, purché non sia un modo per “salvarsi l’anima”. E importantissimo è stato lo sciopero del 17 del Si Cobas come concreta manifestazione di solidarietà internazionale. Ognuno di noi deve però fare uno sforzo in più per assumersi la sua quota di responsabilità per quanto succede, non delegare agli altri.

Occorre lavorare per ricostruire organizzazioni internazionaliste dei lavoratori come quelle che durante la prima guerra mondiale si opposero alla carneficina, che allora come oggi serve gli interessi del capitale.

A. M.

Nota 1
Un sondaggio Gallup del marzo 23 mostrava che mentre i baby boomers (i nati 1946-64) tifavano nettamente per Israele, i millennials (1980-2000) che rivendicavano i diritti dei palestinesi erano un 2% in più di chi giustificava Israele.
Fra ha chi ha 65 anni o più il 69% è favorevole a mandare più armi a Israele, il 23% è contrario. Sotto i 40 anni solo il 29% è favorevole mentre il 65% è contrario. Il divario per età è più forte che il divario legato all’opinione politica: fra i repubblicani abbiamo il 65% favorevole ad armare Israele e il 30% contrario, mentre fra i democratici i favorevoli sono il 49% contro un 43% di contrari. https://www.brookings.edu/articles/the-generation-gap-in-opinions-toward-israel/.
Fra gli under 40, il 70% disapprova l’avallo della Casa Bianca all’azione di Israele dopo l’attacco di Hamas. Molti perché ritengono che Hamas non si sradichi radendo al suolo Gaza; altri perché la violenza indiscriminata contro i civili di Gaza non è accettabile. Fatto 100 l’elettorato ebraico democratico, il 34% considera razzista il trattamento riservato da Israele ai palestinesi; il 25% pensa che Israele pratichi l’apartheid e il 22% che oggi Israele commette genocidio contro la Palestina. Le percentuali sono ben più alte per gli under 40 (43% – 38% -36%).


 

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