[SinistraInRete] Leonardo Mazzei: Terza guerra mondiale

Rassegna 21/02/2024

Leonardo Mazzei: Terza guerra mondiale

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Terza guerra mondiale

di Leonardo Mazzei

Parlare di “Terza Guerra Mondiale” è impegnativo, ma necessario. E’ impegnativo perché può sembrare esagerato, è necessario perché è l’immagine che meglio rende l’attuale situazione.

In questo inizio 2024 c’è in giro una pericolosa illusione. Secondo molti la guerra d’Ucraina starebbe per finire, o quantomeno per spegnersi per poi congelarsi magari in una “soluzione” alla coreana. Secondo questa visione, qualcosa del genere dovrebbe accadere pure in Medio Oriente, con l’allentarsi della presa di Israele su Gaza, cui seguirebbe non si sa bene che cosa.

Sfortunatamente le cose sono molto, ma molto più complicate.

 

Cosa vuol dire “Terza Guerra Mondiale”?

Questo articolo non ha lo scopo di affrontare l’insieme delle questioni geopolitiche che si stanno avviluppando davanti ai nostri occhi. Quel che qui ci interessa è fissare un dirimente punto di analisi. La “Guerra Grande” (copyright Lucio Caracciolo) ha la sua origine nella scelta occidentale, dunque in buona sostanza americana, di non cedere l’attuale supremazia su scala planetaria. Una supremazia messa in discussione dall’emergere della Cina, dallo sviluppo dei Brics, dal minor peso economico dell’Occidente complessivo, dall’evidente tendenza generale al multipolarismo, dall’insostenibilità di un sistema monetario dollaro-centrico.

A Washington hanno da tempo deciso di lottare per impedire il passaggio dal “nuovo secolo americano”, teorizzato venti anni fa, a un sistema policentrico in cui dover ricontrattare i nuovi equilibri di potenza.

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Afshin Kaveh: «Marcuse décrit la Société du Spectacle». Guy Debord lettore di “Eros e Civiltà”

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«Marcuse décrit la Société du Spectacle». Guy Debord lettore di “Eros e Civiltà”

di Afshin Kaveh

Screenshot 2024 02 14 alle 17.07.10 1000x641.pngIn questo senso ogni pensatore è responsabile di fronte alla storia del contenuto obbiettivo del suo filosofare.
G. Lukács, La distruzione della ragione

Quel libro tra gli scaffali

Nel 1955, presso la Beacon Press di Boston, trovava per la prima volta pubblicazione Eros and Civilization: A Philosophical Inquiry into Freud del filosofo tedesco Herbert Marcuse, all’epoca insegnante presso l’Università di Harvard. Poco meno di dieci anni dopo, nel 1963, Kostas Axelos, già direttore della rivista Arguments chiusa l’anno precedente e che per le Éditions de Minuit curava una collana omonima, metteva alle stampe la traduzione del libro – resa da Jean-Guy Nény e Boris Fraenkel – consegnata al pubblico francese col titolo di Eros et Civilisation: Contribution a Freud. Daniel Cohn-Bendit, ricordando l’opera, affermava in un primo momento che dall’anno di uscita sino a poco prima degli avvenimenti ruotanti attorno al Maggio del 1968 avesse venduto quaranta esemplari in tutto[1], per poi darne una versione differente diversi anni dopo parlando di «sì e no milleseicento copie» prima del Maggio e più di «centomila esemplari» subito dopo[2]. Quaranta o più di mille copie che fossero, una di queste è presente tra gli scaffali della biblioteca personale di Guy Debord, deposta, dal 2010, presso la Bibliothèque Nationale de France. A tal proposito ci ritorna utile il contributo di Emmanuel Guy e Laurence Le Bras[3], secondo cui, seppur «composta da circa duemila libri», l’archivio dei testi del parigino «corrisponde a una biblioteca tutto sommato piuttosto piccola per uno scrittore di questa portata» e che, per di più, non può essere illustrativa rispetto alle intense letture che hanno accompagnato Debord per tutta una vita, anche perché «il rapido sfogliare i libri al disimballaggio dalle scatole» ha dimostrato, salvo «due eccezioni», che tra le centinaia di migliaia di pagine non era presente «nessuna annotazione a margine dei testi»[4].

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Rete universitaria per la Palestina: L’università e il genocidio

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L’università e il genocidio

di Rete universitaria per la Palestina

immagine 17.jpgLa guerra finirà con la loro distruzione. Netanyahu non cambia idea. È stato chiaro, mentre ordinava l’avanzata su Rafah, l’ultima città della Striscia di Gaza, quella in cui si sono rifugiate un milione e mezzo di persone alla fame, quella da cui non possono più fuggire. La danza macabra sui negoziati per una “tregua” è un vecchio gioco di prestigio che i leader israeliani mettono in scena, con maestria impareggiabile, da decenni, chiedete a chi ne ha memoria. Oggi serve soprattutto a tentare di frenare la rabbia e la disperazione dei familiari dei 130 ostaggi di Hamas e a fornire argomenti a Biden che ha firmato sanzioni economiche contro 4 (quattro!) coloni israeliani responsabili di violenze in Cisgiordania. E allora? Non resta che assistere impotenti a uno sterminio che non ha precedenti in 75 anni di guerra coloniale? Non resta che rassegnarsi a sentirci rivolgere – fra due, cinque dieci anni – quella tremenda domanda dai nostri bambini: voi dove eravate? Cosa avete fatto per fermare l’orrore di quei settemila corpi sepolti sotto le macerie di Gaza che non entrano nelle statistiche? “Se dovessimo partecipare ogni giorno al funerale di una bambina o un bambino assassinati in questi quattro mesi dal sionismo a Gaza, passeremmo i prossimi 27 anni a farlo. Ogni giorno per ventisette anni… La retorica dominante e le nostre lealtà istituzionali rimangono intatte…”, scrive la Rete universitaria per la Palestina in un testo scritto “non per ripetere frasi vuote sui mali della violenza né recitare proclami umanitari…”, ma per “invitare alla comunicazione tra quelli di noi che hanno bisogno di fare qualcosa in modo collettivo…”[Il sommario e l’editing di questo articolo sono di Marco Calabria, scomparso improvvisamente l’8 febbraio 2024]

* * * *

Alcuni parlano, altri discutono, altri piangono, c’è anche chi si rallegra per il genocidio in corso. In ogni caso, solo chi promuove la Nakba fa qualcosa. Ed è così che si cancella una città davanti ai nostri occhi che, però, non vedono più nulla (Rodrigo Karmy Bolton).

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Fulvio Grimaldi: Tutto il mondo sta esplodendo…

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Tutto il mondo sta esplodendo….

di Fulvio Grimaldi

Byoblu-Mondocane 3/14 in onda domenica 21.30. Repliche lunedì 9.30, martedì 11.00, mercoledì 22.30, giovedì 10.00, sabato 16.30,domenica 09.00

Ricordate, voi vegliardi come me, la canzone che Lotta Continua aveva tradotto da “Eves of destruction” di Barry McGuire e che si cantava a gola spiegata un po’ dappertutto in Italia nel famoso decennio di quello che è stato il miglior tentativo in Italia per sbarazzarsi dell’inutile, del pernicioso e del mafioso?

C’erano versi significativi come questi: “Tutto il mondo sta esplodendo / dall’Angola alla Palestina, / l’America Latina sta combattendo,/ la lotta armata avanza in Indocina… L’America dei Nixon, degli Agnew e Mac Namara / dalle Pantere Nere una lezione impara; / la civiltà del napalm ai popoli non piace,/ finché ci son padroni, non ci sarà mai pace…

Beh, Angola e Indocina, Pantere Nere e napalm non appaiono più sul proscenio. Oggi vanno Black Lives Matter, anzi andavano, finanziati da Soros, e le profezie di Isaia. Però, guarda un po’, la Palestina è ancora lì, più che mai, alla faccia di Isaia e di chi dice che tutto è incominciato solo il 7 ottobre.

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Piccole Note: Navalny, il martire del maccartismo

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Navalny, il martire del maccartismo

di Piccole Note

Gonzalo Lira, i morti di serie B. Navalny da vivo non costituiva alcuna minaccia per Putin, da morto sì

Nello stesso giorno in cui è giunta la notizia della morte di Alexei Navalny l’Ucraina ha annunciato il ritiro da Adviika. La cattura della città da parte dei russi sarebbe suonata come campana a morto per la guerra ucraina, la morte di Navalny non solo ha coperto la notizia, ma rilancia la campagna maccartista contro la Russia.

Conquista più che simbolica quella di Adviika, perché qui si era recato Zelensky a fine dicembre per rilanciare la sfida a Mosca, dichiarando con fierezza che Kiev non si sarebbe mai arresa. Già allora era chiaro che la città era persa, ma il presidente ucraino ha voluto difenderla a tutti i costi (come per Bakhmut), mandando al macello i suoi soldati, caduti come mosche sotto il fuoco nemico per un altro mese e mezzo, per arrivare, infine, a ripiegare come aveva suggerito da tempo il capo delle forze armate, generale Valery Zaluznhy, nel frattempo silurato.

Tale la dinamica della guerra alla Russia fino all’ultimo ucraino. La morte di Navalny, dunque, ha coperto tutto, anzi rilanciato. Infatti, Zelensky non ha mancato di far sentire la sua voce contro il “dittatore” russo: “Navalny è morto in una prigione russa. Ovviamente è stato ucciso da Putin”.

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comidad: La deindustrializzazione coincide con la crescita del microcredito

comidad

La deindustrializzazione coincide con la crescita del microcredito

di comidad

In molti hanno ritenuto di liquidare l’intervista rilasciata da Putin a Tucker Carlson come propaganda. Certo che si tratta di propaganda, e non si capisce cos’altro avrebbe dovuto essere. Ciò non esimerebbe però i nostri governi dal replicare a delle specifiche dichiarazioni piuttosto imbarazzanti. In particolare Putin ha riconfermato quanto già si era detto immediatamente dopo l’attentato al gasdotto North Stream, e cioè che il pur grave sabotaggio non aveva del tutto compromesso la possibilità di approvvigionamento di gas russo, in quanto un tubo è rimasto funzionante, perciò la Germania, se volesse, potrebbe ancora servirsene; cosa che invece non sta facendo. La carenza energetica, dovuta al mancato approvvigionamento di gas russo, ha determinato in Germania un drammatico incremento dei costi di produzione, con la conseguente chiusura di numerosi impianti di aziende come Basf, Michelin, Ford, Goodyear, e ora anche Volkswagen. Secondo alcuni commentatori il partito dei Verdi, ora al governo a Berlino, non considera la deindustrializzazione un problema; anzi, essa andrebbe nel senso di un’auspicabile decrescita.

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Alessandro Bartoloni: La “gestione della terra” e concentrazione dell’agricoltura in Italia: i dati

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La “gestione della terra” e concentrazione dell’agricoltura in Italia: i dati

di Alessandro Bartoloni

 

Il movimento dei trattori che sta scuotendo l’Italia ha suscitato un grande interesse per le condizioni dell’agricoltura nel nostro paese. Un settore sempre più concentrato nelle poche mani di grandi imprenditori capitalisti e per questo sempre più lontano dalle esigenze dei lavoratori, dei consumatori e della natura.

 

La gestione della terra

Dai dati ISTAT aggiornati al 2020 emerge che nell’arco di 38 anni si è passati da 3,1 milioni di aziende agricole a 1,1 milioni (-64%). E anche i terreni sono diminuiti: la superficie agricola utilizzata (SAU) è calata del 20,8%, quella totale del 26,4% per una perdita di 33 mila e 60 mila chilometri quadrati rispettivamente (per avere un’idea, l’intera Sicilia è grande meno di 26 mila km2).

Dunque, ci sono sempre meno aziende e il minor terreno a disposizione è gestito da soggetti sempre più grandi. Ma a fronte di una complessiva diminuzione della terra a disposizione che nell’ultimo decennio è stata pari al 2,5%, le piccole aziende risultano avere sempre meno terra, mentre quelle grandi l’aumentano.

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Jeffrey D. Sachs: Come la CIA destabilizza il mondo

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Come la CIA destabilizza il mondo

di Jeffrey D. Sachs

La portata del continuo caos derivante dalle operazioni della CIA andate male è sbalorditiva. In Afghanistan, Haiti, Siria, Venezuela, Kosovo, Ucraina e molto altro ancora, le morti inutili, l’instabilità e la distruzione scatenate dalla sovversione della CIA continuano ancora oggi. I media tradizionali, le istituzioni accademiche e il Congresso dovrebbero indagare su queste operazioni al meglio delle loro possibilità e chiedere la pubblicazione di documenti per consentire una responsabilità democratica.

La CIA ha tre problemi fondamentali: i suoi obiettivi, i suoi metodi e la sua mancanza di responsabilità. I suoi obiettivi operativi sono quelli che la CIA o il Presidente degli Stati Uniti definiscono essere nell’interesse degli Stati Uniti in un determinato momento, indipendentemente dal diritto internazionale o dalle leggi statunitensi. I suoi metodi sono segreti e doppi. L’assenza di responsabilità significa che la CIA e il Presidente gestiscono la politica estera senza alcun controllo pubblico. Il Congresso è uno zerbino, uno spettacolo secondario.

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Sandro Moiso: C’era una volta… oppure c’è ancora Marx?

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C’era una volta… oppure c’è ancora Marx?

di Sandro Moiso

Marcello Musto, Alfonso Maurizio Iacono (a cura di), Ricostruire l’alternativa con Marx. Economia, ecologia, migrazione, Carocci editore, Roma 2023, pp. 350, 32 euro

71jQ7GDbBoL. AC UL600 SR600600 .jpgSi adopera l’espressione «marxismo» non nel senso di una dottrina scoperta o introdotta da Carlo Marx in persona, ma per riferirsi alla dottrina che sorge col moderno proletariato industriale e lo «accompagna» in tutto il corso di una rivoluzione sociale e conserviamo il termine «marxismo» malgrado il vasto campo di speculazioni e di sfruttamento di esso da parte di una serie di movimenti antirivoluzionari. (Amadeo Bordiga – Riunione di Milano, 7 settembre 1952)

Occorre iniziare dalla perentoria e sintetica frase pronunciata da Amadeo Bordiga più di settant’anni fa per cogliere lo smarrimento che al giorno d’oggi può cogliere un certo numero di militanti antagonisti ogni qualvolta sentono usare il nome del filosofo di Treviri oppure il termine che ne indica l’opera e la sua interpretazione da parte di terzi.

Condizione che, spesso, trasmette un’idea di inutile deja vù o, ancor peggio, di opportunistica rivendicazione di una dottrina ridotta a fantasma di se stessa proprio a opera di coloro che un tempo, ora sempre meno, a Marx ed Engels si richiamavano, magari insieme al nome di Lenin o di altri appartenenti al periodo dello stalinismo trionfante e dell’opposizione allo stesso.

Per far uscire l’opera di Marx da questa sorta di terra di nessuno in cui è stata relegata, grazie anche all’assenza di una significativa ripresa della lotta di classe, può risultare utile la lettura del volume collettivo appena pubblicato da Carocci editore che raccoglie i contributi di quattordici studiosi di fama mondiale, appartenenti a diversi ambiti disciplinari e provenienti da vari paesi, nei quali si prova a offrire uno sguardo più moderno e attualizzato sulle idee del filosofo tedesco riguardo all’ecologia, ai processi migratori, alle questioni di genere, al modo di produzione e riproduzione capitalistico, alla composizione del movimento operaio, alla globalizzazione e alle possibili caratteristiche di un’alternativa allo stato di cose presente.

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Massimo D’Antoni: L’Euro, il Lavoro, la Sinistra

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L’Euro, il Lavoro, la Sinistra

di Massimo D’Antoni

Declino economia1.jpgL’euro è stato lo strumento per contenere le richieste sindacali e attrarre capitali per il finanziamento del commercio estero. Perché la sinistra ha aderito in modo acritico a una scelta che indeboliva la sua base sociale? L’odierna illusione che sia sufficiente una vera unione fiscale.

Nel 1992, sollecitato sul tema della costituenda unione monetaria dal giornalista Mario Pirani, in un’intervista per la Repubblica, il prof. Frank Hahn, autorevole economista di Cambridge, affermava che «l’unione monetaria va contro tutto quello che sappiamo di economia».

 

Il vero obiettivo dell’euro, il controllo della classe lavoratrice

Si riferiva chiaramente all’analisi delle aree valutarie ottimali. È noto infatti che la condivisione di una valuta – ma il discorso vale anche per forme più limitate di coordinamento valutario, quale l’adozione un regime di cambi fissi – richiede per ben funzionare una serie di condizioni, tra le quali particolarmente rilevante è la mobilità dei fattori produttivi. Hahn spiegava che, in una situazione come quella europea, di limitata mobilità dei fattori, una volta bloccata la valvola di sfogo rappresentata dal tasso di cambio, il ruolo di stabilizzatore rispetto agli squilibri della bilancia dei pagamenti sarebbe toccato al mercato del lavoro. Data la rigidità dei salari, il riequilibrio richiesto avrebbe determinato fluttuazioni nel livello di disoccupazione: «I cambi fissi sostituiscono le fluttuazioni del cambio con quelle dell’occupazione». A giudizio di Hahn, queste conclusioni, benché note agli economisti, erano ignorate dai decisori politici a causa di un’eccessiva preoccupazione per la stabilità dei prezzi.

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Augusto Graziani: Questione meridionale: una questione di sviluppo?

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Questione meridionale: una questione di sviluppo?*

di Augusto Graziani

Pubblichiamo un inedito di Augusto Graziani nel decimo anniversario della sua morte sulla cd. “questione meridionale” Il testo viene accompagnata da una prefazione di Francesco Maria Pezzulli, che ha scoperto la registrazione dell’intervento, e da una breve postfazione di Andrea Fumagalli

Augusto Graziani.jpgPrefazione di Francesco Maria Pezzulli

Questo testo inedito di Augusto Graziani è particolarmente utile perché vi è riassunto il suo punto di vista, in modo semplice e dialogico, su una delle tematiche che lo ha accompagnato per tutta la vita: la questione meridionale. Oserei dire che in queste poche pagine, oltre alla competenza scientifica del grande economista, emerge anche una sua positiva “classicità”. Graziani comincia la sua discussione con gli studenti ricordando loro, fatemela passare, che lui è un economista di sinistra, che ha abbracciato cioè quel principio secondo il quale, con Marx, sono le condizioni d’esistenza delle classi sociali che condizionano le loro dimensioni culturali e che dunque queste due cose vanno tenute insieme se si vogliono intendere per davvero le dinamiche di cambiamento. Ma parlando agli studenti, in modo sornione e divertito, si rivolgeva anche ai sociologi ed agli economisti del Mezzogiorno presenti, ai quali, prendendoli un pò in giro, gli rimproverava di aver dimenticato questo dato scientifico e politico essenziale. Con le sue parole: «gli economisti, e qui torno al mio peccato originale, non solo si muovono terra-terra ma sono anche colpevoli di un peccato di ambizione e cioè ritengono che il progresso della ricchezza materiale (della produzione, dei consumi individuali e collettivi) sia alla base, e che tutto il resto (lo sviluppo della cultura, della civiltà, dello spirito di convivenza e di tutte le altre virtù sociali che potete elencare) sia una conseguenza. Si potrebbe riassumere dicendo che per un economista la povertà è una cattiva consigliera, mentre la ricchezza apre la strada al progresso anche culturale e sociale».

Per Augusto Graziani la questione meridionale è stata sempre e soprattutto un problema concreto di rottura con il passato, con ciò che un tempo venivano definiti “residui feudali” delle società sottosviluppate. Ed è innegabile che tali residui fossero presenti nel Mezzogiorno e che, sotto certi aspetti, lo sono ancora oggi.

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Dante Barontini: Neanche Draghi sa più come uscirne…

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Neanche Draghi sa più come uscirne…

di Dante Barontini

Se c’è qualcuno che può permettersi di dire l’indicibile, in campo euro-atlantico, è ancora Mario Draghi.

Impossibile accusare questo demolitore del patrimonio pubblico italiano, nonché per qualche anno vicepresidente di Goldman Sachs, poi governatore della Banca d’Italia, quindi della Banca Centrale Europea, infine presidente del Consiglio e ora “consulente” della Commissione Europea (il “governo” UE), di non avere a cuore e ben chiaro in testa quale sia l’interesse strategico del capitale multinazionale basato sulle due sponde del Nord Atlantico.

Solo lui, dunque, può osare dire che “la globalizzazione” – la fase della egemonia incontrastata dell’Occidente neoliberista e della gigantesca delocalizzazione produttiva nei paesi a basso costo del lavoro – ha rafforzato soprattutto i “nemici”, indebolendo “i valori liberali” (ormai solo “chiacchiere e distintivo”, per i governi nella Nato) e costringendo sia i governi nazionali che le banche centrali a seguire regole diverse, impreviste, improvvisate.

Draghi parlava, ieri, alla Nabe economic policy conference, dove è stato insignito del «Paul Volker Lifetime Achievement Award», premio intitolato all’ex governatore della Federal Reserve americana.

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Alastair Crooke: Il vortice del mondo

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Il vortice del mondo

di Alastair Crooke – Strategic Culture

Gli Stati Uniti si stanno avvicinando alla guerra con le Forze di Mobilitazione Popolare irachene, un’agenzia di sicurezza statale composta da gruppi armati, alcuni dei quali vicini all’Iran, ma soprattutto nazionalisti iracheni. Gli Stati Uniti hanno effettuato un attacco con un drone a Baghdad, mercoledì, che ha ucciso tre membri delle forze Kataeb Hizbullah, tra cui un comandante senior. Uno degli assassinati, al-Saadi, è il comandante più alto in grado ad essere stato assassinato in Iraq dopo l’attacco del 2020 che ha ucciso il comandante iracheno al-Muhandis e Qassem Soleimani.

L’obiettivo è sconcertante, poiché la Kataeb ha sospeso più di una settimana fa le sue operazioni militari contro gli Stati Uniti (su richiesta del governo iracheno). La sospensione è stata ampiamente pubblicizzata. Allora perché questa figura di spicco è stata assassinata?

Le torsioni tettoniche spesso sono innescate da un’unica azione eclatante: l’ultimo granello di sabbia che, sommato agli altri, innesca lo scivolamento, rovesciando il mucchio di sabbia. Gli iracheni sono arrabbiati. Sentono che gli Stati Uniti violano in modo sconsiderato la loro sovranità, mostrando disprezzo e sdegno per l’Iraq, una civiltà un tempo grandiosa, ora ridotta in rovina dalle guerre USA. Sono state promesse ritorsioni rapide e collettive.

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Piccole Note: L’attacco a Rafah e la scommessa persa da Israele

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L’attacco a Rafah e la scommessa persa da Israele

di Piccole Note

L’attacco a Rafah non sembra imminente. Netanyahu lo propugna a fini interni. Ma Israele ha chiesto troppo a quanti erano disposti a schiararsi con esso. E ha perso, diventando un paria

L’attacco in grande stile a Rafah, il più grande campo profughi del mondo, non è ancora avvenuto, anche se si registrano bombardamenti sporadici non beneaguranti. È come se l’operazione fosse stata sospesa, mentre, al contrario, sul fronte Nord, si è registrato l’attacco più massivo contro il Libano dall’inizio della guerra, per rispondere a un’azione offensiva di Hezbollah particolarmente riuscita, ma soprattutto per colmare un vuoto.

La macchina da guerra israeliana, infatti, come accade in tutte le guerre, ha bisogno di inanellare successi, veri o asseriti che siano. E in un mondo accelerato come l’attuale, tale processo necessita di una cadenza quotidiana.

Sull’offensiva a Rafah, segnali contrastanti. Iniziamo dalle rivelazioni di Politico, che riporta indiscrezioni di rilievo: “L’amministrazione Biden non ha intenzione di punire Israele qualora lanciasse una campagna militare a Rafah senza garantire la sicurezza dei civili […] non ha nessuna intenzione di muovere rimproveri, il che significa che le forze israeliane potrebbero entrare in città e nuocere ai civili senza dover affrontare conseguenze da parte dell’America”.

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Daniele Burgio, Massimo Leoni e Roberto Sidoli: La guerra USA contro il primato tecnologico mondiale della Cina

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La guerra USA contro il primato tecnologico mondiale della Cina

di Daniele Burgio, Massimo Leoni e Roberto Sidoli

I “fatti testardi” (Lenin) risultano da tempo chiari ed esposti nel 2023 anche dall’insospettabile istituto Australian Strategic Policy Institute in un suo rapporto fatto passare, guarda caso, sotto silenzio da gran parte della sinistra occidentale: in base a esso la Cina è ormai diventata il “numero uno” planetario in ben 37 dei 44 principali settori tecnologicamente importanti del mondo contemporaneo.

Come hanno ben evidenziato T. Buccellato e S. Olivari, “una ricerca dell’Australian Strategic Policy Institute (Aspi) rivela che la Cina ha costruito le basi per posizionarsi come superpotenza scientifica e tecnologica leader a livello mondiale, stabilendo un vantaggio sorprendente: nella maggior parte dei settori tecnologici critici ed emergenti, gli istituti di ricerca generano nove volte più documenti di ricerca ad alto impatto rispetto al secondo paese classificato, il più delle volte gli Stati Uniti. La Cina ha raggiunto così una leadership su 37 dei 44 ambiti tecnologici critici riportati nella tabella. Tutte le tecnologie etichettate come ad alto rischio di monopolio sono presidiate da Pechino. Non a caso, cresce in continuazione il flusso verso il paese asiatico di conoscenze e di ricercatori talentuosi in questi settori”.[1]


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Giorgio Agamben: L’esperienza del linguaggio è un’esperienza politica

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L’esperienza del linguaggio è un’esperienza politica

di Giorgio Agamben

In che modo sarebbe possibile cambiare veramente la società e la cultura in cui viviamo? Le riforme e persino le rivoluzioni, pur trasformando le istituzioni e le leggi, i rapporti di produzione e gli oggetti, non mettono in questione quegli strati più profondi che danno forma alla nostra visione del mondo e che occorrerebbe raggiungere perché il mutamento fosse davvero radicale. Eppure noi abbiamo quotidianamente esperienza di qualcosa che esiste in modo diverso da tutte le cose e le istituzioni che ci circondano e che tutte le condiziona e determina: il linguaggio. Abbiamo innanzitutto a che fare con cose nominate, eppure continuiamo a parlare a vanvera e come capita, senza mai interrogarci su che cosa stiamo facendo quando parliamo. In questo modo è proprio la nostra originaria esperienza del linguaggio che ci rimane ostinatamente nascosta e, senza che ce ne rendiamo conto, è questa zona opaca dentro e fuori di noi che determina il nostro modo di pensare e di agire.

La filosofia e i saperi dell’Occidente, confrontati con questo problema, hanno creduto di risolverlo supponendo che ciò che facciamo quando parliamo è mettere in atto una lingua, che il modo in cui il linguaggio esiste è, cioè, una grammatica, un lessico e un insieme di regole per comporre i nomi e le parole in un discorso.

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