Nel 1965 don Lorenzo Milani, prete pensatore e per questo confinato ad una parrocchia di campagna, a Barbiana, nel Mugello, produsse una serie di scritti che puntavano ad aggredire il concetto di obbedienza, mettendone in discussione (per sempre?) il valore morale di tale attitudine.
In un primo, del febbraio 1965, dal titolo “Lettera ai cappellani Militari Toscani”, scriveva:
<<E se manteniamo a caro prezzo (1000 miliardi l’anno) l’esercito, è solo perché difenda colla Patria gli alti valori che questo concetto contiene: la sovranità popolare, la libertà, la giustizia.
L’obiezione in questi 100 anni di storia l’han conosciuta troppo poco. L’obbedienza, per disgrazia loro e del mondo, l’han conosciuta anche troppo. (…)
Ma in questi cento anni di storia italiana c’è stata anche una guerra “giusta” (se guerra giusta esiste). L’unica che non fosse offesa delle altrui Patrie, ma difesa della nostra: la guerra partigiana.
Da un lato c’erano dei civili, dall’altra dei militari. Da un lato soldati che avevano obbedito, dall’altra soldati che avevano obiettato.
Quali dei due contendenti erano, secondo voi, i “ribelli”, quali i “regolari”? (…)
Aspettate a insultarli. Domani forse scoprirete che sono dei profeti. Certo il luogo dei profeti è la prigione, ma non è bello star dalla parte di chi ce li tiene>>.
Nella sua successiva “Lettera ai giudici” del 18 ottobre 1965 approfondisce il ragionamento:
<<A Norimberga e a Gerusalemme son stati condannati uomini che avevano obbedito. L’umanità intera consente che essi non dovevano obbedire, perché c’è una legge che gli uomini non hanno forse ancora ben scritta nei loro codici, ma che è scritta nel loro cuore. Una gran parte dell’umanità la chiama legge di Dio, l’altra parte la chiama legge della Coscienza. Quelli che non credono né nell’una né nell’altra non sono che un’infima minoranza malata. Sono i cultori dell’obbedienza cieca. (…)
Un delitto come quello di Hiroshima ha richiesto qualche migliaio di corresponsabili diretti: politici, scienziati, tecnici, operai, aviatori.
Ognuno di essi ha tacitato la propria coscienza fingendo a se stesso che quella cifra andasse a denominatore. Un rimorso ridotto a millesimi non toglie il sonno all’uomo d’oggi.
E così siamo giunti a quest’assurdo che l’uomo delle caverne se dava una randellata sapeva di far male e si pentiva. L’aviere dell’era atomica riempie il serbatoio dell’apparecchio che poco dopo disintegrerà 200.000 giapponesi e non si pente.
A dar retta ai teorici dell’obbedienza e a certi tribunali tedeschi, dell’assassinio di sei milioni di ebrei risponderà solo Hitler. Ma Hitler era irresponsabile perché pazzo. Dunque quel delitto non è mai avvenuto perché non ha autore.
C’è un modo solo per uscire da questo macabro gioco di parole>>.
Il solo modo è rimettere le parole a posto. Chiamare le cose con il loro nome.
Nel 1965 quelle parole suonavano un po’ così:
<<Avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, per cui l’obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni, che non credano di potersene far scudo né davanti agli uomini né davanti a Dio, che bisogna che si sentano ognuno l’unico responsabile di tutto.
A questo patto l’umanità potrà dire di aver avuto in questo secolo un progresso morale parallelo e proporzionale al suo progresso tecnico>>.
I CANI DI PAVLOV
E’ passato più di mezzo secolo da queste parole, 56 anni.
Oggi si è fatto un passo avanti.
A forza di sentirci tutti responsabili di qualcosa, siamo diventati come i cani di Pavlov, che non rispondevano a ragione di un’obbedienza, ma di una gratificazione dell’azione.
Sentirci responsabili ci gratifica, ci dà diritto a un privilegio. Ma così ci condanna a un condizionamento dell’azione.
Ogni volta che qualcuno fa suonare il campanello, ogni volta che qualcuno invoca la responsabilità: tutti sull’attenti.
L’acquolina in bocca viene perché farsi trovare responsabili comporta un premio, una gratificazione appunto.
Ed è con questo meccanismo che il Capitale globalizzato sta ipnotizzando le masse mondiali, o gran parte di esse, da oltre un anno.
Nel momento in cui ci chiama alla responsabilità, di fatto, ci chiama all’obbedienza.
Perché ciò che è un’azione responsabile e una irresponsabile, lo stabilisce sempre la coscienza individuale, non il sistema, non lo Stato, non le chiese, né tantomeno la Scienza.
La legge morale sta dentro ognuno di noi e non possiamo appaltarla alle diverse parrocchie.
Ancora meno quando il sistema pone in essere tecniche di condizionamento della scelta per raccogliere adesioni ai propri dogmi.
Dogmi di responsabilità che peraltro lo stesso sistema è il primo a violare, non facendosi “responsabile” degli effetti avversi a breve, medio e lungo termine che i vaccini potrebbero provocare.
Oggi, alla vigilia dell’introduzione della Certificazione Verde in Italia, possiamo riformulare la frase di don Lorenzo Milani, nella convinzione che non se avrà a male.
“La Responsabilità non è più una virtù, ma è la più subdola delle tentazioni”.
MICHELANGELO SEVERGNINI
(Regista indipendente, esperto di Medioriente e Nord Africa, musicista)