Roberta Gisotti – Città del Vaticano
“Gli accordi di pace possono essere firmati e le ostilità possono cessare, ma le mine terrestri e i residuati bellici esplosivi sono un’eredità perdurante dei conflitti”. Si apre con queste parole il 21 mo Rapporto messo a punto dalla Campagna internazionale per il bando delle mine (Ucbl) e la Coalizione contro le bombe a grappolo (Cmc). Sono infatti passati 20 anni dall’entrata in vigore, il 1 marzo del 1999, del Trattato di Ottawa, che prende il nome della capitale canadese dove è stata siglata la Convenzione internazionale per la proibizione in tutto il mondo dell’uso, stoccaggio, produzione e vendita delle mine antiuomo e per la distruzione di quelle inesplose.
Trattato di Ottawa: 164 Paesi hanno aderito, 33 no
Ad oggi, ci aggiorna il Rapporto, sono 164 gli Stati che hanno aderito al Trattato, ultimi a ratificarlo, quindi a recepirlo nel proprio ordinamento, sono stati lo Sry Lanka e la Palestina, nel dicembre 2017, mentre le Isole Marshall del Pacifico, lo hanno solo firmato. Tra i Paesi assenti spiccano, per il loro ruolo strategico negli equilibri geopolitici internazionali, Stati Uniti, Cina, India, Russia, Israele, Iran, Egitto, Arabia Saudita Emirati Arabi Uniti ma in totale all’appello mancano 33 Stati.
Rapporto monitora produzione, commercio, stoccaggio, bonifica
Il Rapporto monitora infatti ogni anno l’impiego, la produzione, il commercio e lo stoccaggio questi ordigni in ogni Paese del mondo, fornendo informazioni anche sulla contaminazione e lo sminamento, sulle politiche di messa al bando e i finanziamenti alle azioni contro le mine, oltre che sulle vittime e il sostegno offerto loro dagli Stati.
Armi progettate per esplodere vicino alle persone
Le mine antiuomo sono munizioni progettate per esplodere alla presenza, in prossimità o contatto di una persona o di un veicolo. Le vittime sono indifferentemente bambini o soldati e le principali vittime, specie degli ordigni inesplosi, sono proprio i civili, spesso anche anni e decenni dopo la fine dei conflitti.
Una continua minaccia per i civili
“Sia le mine terrestri che i residuati bellici rappresentano – ammonisce il Rapporto – una seria e continua minaccia per i civili. Queste armi si trovano su strade, sentieri, campi agricoli, foreste, deserti, lungo i confini, nei pressi di case e scuole circostanti e in altri luoghi dove le persone conducono le loro attività quotidiane. Negano l’accesso al cibo, all’acqua e ad altri bisogni di base e inibiscono la libertà di movimento…. impediscono il rimpatrio dei profughi e degli sfollati interni e ostacolano l’invio degli aiuti umanitari”.
Una barriera alla ricostruzione postbellica
“Queste armi – prosegue il Rapporto – infondono paura nelle comunità, i cui cittadini spesso sanno di camminare in aree minate, ma non hanno la possibilità di coltivare altri terreni o prendere un’altra strada per andare a scuola. Quando la terra non può essere coltivata, quando i sistemi sanitari sono prosciugati dai costi per le conseguenze delle mine e degli altri ordigni esplosivi e quando i Paesi devono spendere denaro per lo sminamento piuttosto che pagare per l’istruzione, è chiaro che queste armi non solo causano spaventose sofferenze umane, ma sono anche una barriera letale allo sviluppo sostenibile e alla ricostruzione postbellica”.
60 Paesi ancora contaminati da ordigni inesplosi
Ad oggi sono 60 i Paesi e le aree contaminate dalla presenza di mine antiuomo, di cui 34 Stati firmatari del Trattato di Ottawa, 22 non firmatari e altre 4 aree. Si ritiene che le maggiori concentrazioni siano in Afghanistan, Azerbaijan, Angola, Bosnia Erzegovina, Cambogia, Ciad, Croazia, Iraq, Sahara Occidentale, Thailandia, Turchia, Yemen.
Oltre 3 mila morti e quasi 4 mila feriti nel 2018
Riguardo le vittime, il rapporto segnala che da quattro anni il loro numero è “eccezionalmente elevato”. Nel 2018, le persone uccise sono state 3.059 e quelle ferite 3.837, in totale 6.897 vittime, quasi il doppio rispetto alle 3.457 registrate cinque anni prima, nel 2013. L’aumento sarebbe collegato ai conflitti e alle violenze su larga scala che hanno interessato Afghanistan, Mali, Myanmar, Nigeria, Siria e Ucraina. Le esplosioni si sono comunque verificate in 50 Stati e altre aree. Le vittime sono per il 71 per cento civili, di cui oltre la metà, 45 per cento, sono bambini. Dall’inizio delle attività di monitoraggio, nel 1990, sono state registrate 130 mila vittime, di cui 90 mila sopravvissuti, sovente con gravi mutilazioni. Sono cifre in difetto, dato che spesso non vengono registrate le vittime a causa di situazioni di conflitto in corso o di instabilità sociale o di sottosviluppo.