Pierluigi Fagan: “Democrazia o barbarie”

Pierluigi Fagan – 30/04/2024

Articolo in tre parti:

DEMOCRAZIA O BARBARIE (1/3): CRITICA DELLA DEMOCRAZIA PERVERTITA. | pierluigi fagan | complessità

DEMOCRAZIA O BARBARIE (2/3): LA DEMOCRAZIA RADICALE. | pierluigi fagan | complessità

DEMOCRAZIA O BARBARIE: PERCHE’ UNA PROSPETTIVA DI DEMOCRAZIA RADICALE È INDISPENSABILE (3/3). | pierluigi fagan | complessità

 

DEMOCRAZIA O BARBARIE (1/3): CRITICA DELLA DEMOCRAZIA PERVERTITA

Le correnti democratiche nella storia

sono come il battito continuo delle onde:

si infrangono sempre contro uno scoglio,

ma vengono incessantemente sostituite da altre.

R. Michels, La sociologia del partito politico nella democrazia moderna, 1912

Il punto centrale della comparazione tra democrazia antica e moderna è nello spirito del tempo, solo dopo nelle forme giuridiche e procedurali. Semplicemente, ciò che diede il nome alla cosa democratica ateniese e greca era lo spirito forte di un tempo che voleva portare i cittadini a governarsi da sé, senza intermediari o strati superiori. Quella moderna invece, pone una funzione intermedia tra cittadini e potere. Essa ha due caratteristiche principali, richiede una delega basata su riconoscimenti di competenza nel portare avanti le istanze delegate; quindi, punta a limitare la partecipazione politica ad un singolo atto di voto ogni quattro anni del delegante. Se la originaria democrazia attraeva la gente, la seconda la respinge. Questa seconda è di natura spettatoriale (ed infatti ormai è un cardine della società dello spettacolo), la prima mobilita scopo, intento e fine, motivazione, coinvolgimento, azione, partecipazione. Tutte cose che si vogliono evitare dal fronte oligarchico.

La prima forma, la unica ed originaria, oggi la diciamo “diretta” solo perché dopo abbiamo inventato la delegata, ma dire che la delegata merita comunque il nome di democrazia è nostro arbitrio. Cioè se si toglie l’essenza ad una cosa, quella cosa cambia sostanza o si può continuare a trattarla della stessa sostanza nonostante la si sia devitalizzata? Non importa se ci sono o meno effettive cause di forza maggiore nel doverlo fare, in sé per sé la cosa senza essenza cambia di fatto sostanza. Una democrazia delegata è una variante light della forma oligarchica, non una variante light di democrazia propriamente detta. Salta ad altra categoria come bruco a farfalla, ghiaccio ad acqua a gas.

Al fondo di questa questione, c’è una contraddizione fondamentale. Dalla prima forma scritta di ragionamento politico in quel delle Storia di Erodoto – Dialogo dei persiani- in cui troviamo l’orazione del sostenitore del sistema oligarchico Megabizo, al contemporaneo sostenitore dell’epistocrazia Jason Brennan (Contro la democrazia, LUISS, Roma), via Anonimo oligarca, Platone e schiere indefesse di antidemocratici, l’obiezione è sempre la stessa: il popolo non sa, non è in grado di sapere, di dirigere processi complessi in vista di fini politici adeguati.

Credo questa obiezione sia corretta (sebbene l’argomento andrebbe precisato e discusso a fondo), ma noto due/tre cose. La prima è che nessuno si pone allora il problema di adeguare questo popolo incapace ad emanciparsi dalle catene della sua ignoranza, la seconda è che non si capisce se è così incapace a tenere redini politiche in salde mani, come può esserlo nel delegare con consapevolezza e ragione un terzo che ne rappresenti le istanze men che primitive. Infine, in tale modalità delegata su basi primitive, il corpo politico si troverà una disparata panoplia di istanze particolari e nessuna che converge verso l’interesse generale.

In gioco si sono due ordinatori sociali. Diciamo “ordinatori” i paradigmi di governo del sistema sociale sia quello dei valori immateriali, sia quello delle funzioni materiali. La democrazia campeggia al centro di una idea di società ordinata dal politico, quella che abbiamo che è un sistema repubblicano a governo misto (Uno-Pochi-Molti), è ordinata dall’economico. Tant’è che c’è chi non prova vergogna a chiamarla anche “democrazia di mercato”, alla festa dell’ossimoro. In gioco c’è il tempo individuale e sociale. Grandi porzioni di tempo da dedicare alla politica, in democrazia, altrettanto grandi porzioni di tempo dedicate a produrre, comprare e consumare nel caso di quella di mercato, poiché è proprio il mercato che distribuisce le carte, il gioco è quello, l’egemonia temporale sull’esistenza personale.

La delega dà la richiesta legittimità, con essa approvate le forme della vostra servitù volontaria. La date “dal basso” ad un “alto” che scegliete come? Qui torniamo alle basi di competenza. I cittadini sanno davvero quali sono i problemi o meglio le cause, come andrebbero risolti nell’interesse generale? Perché se non lo sanno (e date le penose condizioni dei sistemi formativi, informativi e ridistributivi di conoscenza attuali si può più che dubitare), non si capisce allora il quale mai sarà il contenuto delle delega stessa. Alla fine, diamo una delega vaga e non imperativa, non la controlliamo più di tanto, non possiamo revocarla, dura quattro anni.

I deleganti, nel tempo, non acquisiscono alcuna conoscenza della trama complessa dell’arte di governo e del come questa si applica alla rugosa realtà. Non ricevono informazioni da chi si dovrebbe applicare ad una qualche trasformazione del mondo, così rimangono in uno stato di vago istupidimento idealista. Lì si forma una biforcazione che porta il delegato ad un livello di ingaggio con la realtà molto complessa, il delegante invece rimane fuori della realtà politica.

Questa massa di delegati va a formare l’oligarchia che governa le leggi, il fisco, i fatti militari e polizieschi. Alcuni dovrebbero aver avuto mandato critico o di opposizione o alternativo. Nel tempo però, loro stessi, anche quelli in buonafede, si rendono conto degli errati presupposti di delega e debbono autonomamente decidere come riformularla o reinterpretarla. Tanto sembrerà sempre un tradimento. Sempre che non scelgano per interesse personale, di fregarsene dello spirito del mandato e confluire di fatto nei modi della gestione oligarchica dominante svoltando la propria vita personale con occasioni che capitano una volta sola nella vita e per i più mai.

Diventano così anche loro “classe politica” che in base a supposte competenze, si riserva un universo chiuso che tende ad automantenersi al potere. Il tradimento della delega offre in campo politico, l’arrivo di altri delegati che vendicheranno la “truffa” precedente in una coazione a ripetere di aspettative tradite, sì che il delegante, alla fine, nutrirà una sfiducia totale in questa forma di fare politico. Altresì, se i delegati che si supponevano democratici hanno tradito, c’è sempre la possibilità si offrano i delegati demagogici, finto democratici ed in realtà aspiranti oligarchici che vanno di scorciatoia.

La democrazia di mercato o liberale è una forma precisa dell’antico “regime misto” (Uno-Pochi-Molti) che sfocia nel repubblicanesimo che però cambia nome e si presenta come versione moderna e adattata della antica democrazia lì dove parola e cosa sono legati in radice piantata nella storia. Avvenne tra Stati Uniti ed Europa più o meno nello spirito culturale e politico di metà XIX secolo. Ma ci vorrà la messa in Costituzione dei sovietici del suffragio universale nel 1918 per procedere almeno a questa estensione del diritto di delega universale. Tuttavia, solo nel 1945-6 si compirà il processo anche in Francia ed Italia ed addirittura solo nel 1965 nella ex-più grande democrazia del mondo, gli Stati Uniti. Neanche un secolo.

La messa in Costituzione della democrazia liberale o di mercato e comunque “rappresentativa” era un compromesso di co-paternità delle nostre nuove società uscite dalla tempesta bellica e ideologica della prima metà del Novecento. La parte liberale, conservatrice, cristiana, popolo ma anche sue élite, mediava con la parte socialista e comunista popolare. Tuttavia, va segnalato che la tradizione socialista e comunista non sapeva nulla di democrazia, ritenuta forma ambigua di potere comunque “borghese”, a cui in genere si preferiva la speranza rivoluzionaria. Socialisti e comunisti, purtroppo, avevano deficit di conoscenza sia in politica che in economia, essendo radicalmente alternativi era anche ovvio fosse così. Alla fine, li parve pacificatore almeno accettare in qualche modo la forma repubblicana ed accettarono anche loro di chiamarla democrazia, del tutto ignari della non corrispondenza tra parola e cosa. Da allora siamo tutti obbligati a mostrare questa reverenza sacra verso il dettato costituzionale, una intera classe di giuristi la presiede con riti e simboli di alta cultura, etica e segni di garanzia di cosa ottima, fondativa, giusta. Eraclito diceva che bisognava le leggi come le mura della città e nulla è sentito più patriottico che difendere la Costituzione.

Sta il fatto che non c’è scienziato storico politico che non potrà che confermarvi che l’elezione di delegati politici è di tradizione feudale ed aristocratica. La Magna Charta (1215) racconta di queste prime assemblee baronali che si vollero mettere in dialettica col potere dell’Uno monarchico. Dopo 443 anni, sempre in quel di Inghilterra, l’assemblea dei delegati dei ceti alti sempre più attratti dal gioco economico e finanziario, fece un colpo di stato (Gloriosa rivoluzione 1688-89) contro le prerogative del monarca ed ottenne finalmente il potere primo, quello ordinativo. Da lì inizia quello che chiamiamo capitalismo moderno che equivochiamo come forma puramente economica quando è sociopolitica e culturale, via ordinatore economico che s’impossessa di uno Stato e relativa potenza (fiscale, giuridica, militare).

L’atto di delega politica avviene una volta ogni quattro anni circa, l’unico atto politico attivo richiesto da questa versione pervertita della democrazia è saltuario e dilatato molto nel tempo. Nessuno mai dai romani ai liberali ha mai rivendicato discendenza con Atene, tutti o con Sparta o più spesso con Roma. Dall’Arco di trionfo a Parigi e Capitol Hill a Washington, i simboli parlano.

Alla nuova forma con le oligarchie in mezzo al potere spesso presidenziale e con sotto il popolo delegante, corrispose la forma politica di partito. Nessun partito però è mai stato democratico, anzi, da Robert Michels con la sua “ferrea legge dell’oligarchia” a Simone Weil si mostra con chiarezza come siano stati perfetti riflessi delle forme degli apparati di governo costituzionali. In teoria, in democrazia reale, non si capisce perché un cittadino dotato di intelligenza politica in proprio debba ficcarsi in questi poco agili vagoni di consenso semi-militare in cui i capi rendono nota la “linea” politica per l’intero gruppo. Un insulto all’esercizio dell’intelligenza in proprio.

Sebbene, come abbiamo accennato, i guardiani del concetto siano ritenuti i giuristi, il concetto di democrazia reale risponde invero ad un assente gruppo di “culturalisti”, non saprei come altro chiamarli. Questo perché si ha democrazia, almeno le sue condizioni di possibilità, osservando almeno cinque fattori di sistema che nulla hanno a che fare con le leggi.

In breve, si tratta di informazione, conoscenza, dibattito, ridistribuzione e tempo. Sia che vogliate partecipare attivamente alla gestione politica della comunità nella forma di reale democrazia, sia anche per dare deleghe, è necessario avere molta informazione corretta e plurale in punto di vista, su oggetti e fenomeni su cui apporre giudizio. Questo strato sempre aggiornato di informazioni va processato da impianti di conoscenze adeguati. Gli impianti di conoscenza fanno la differenza. Il dibattito tra cittadini e non quello che cittadini passivi instupiditi dalla stanchezza lavorativa guardano fare da “esperti” tali autodefiniti o definiti dal sistema dominante, servirebbe anche a condividere, omogeneizzare e diffondere in medietà un corpo comune di informazioni e conoscenza di modo da riuscire ad esprimere l’interesse e non già quello particolare che potrete sommare quanto vi pare, senza da ciò arrivare mai a comporre il generale. Dibattere serve anche ad articolare il pensiero rendendosi conto se è logico, razionale, difendibile e non una collezione di pregiudizi, presunzioni, esagerate induzioni, emozioni. Ma per ridistribuire conoscenza, deve esserci un impegno altro alla tendenziale eguaglianza culturale, eguaglianza tendenziale certo e almeno delle possibilità. Tutta la storia dello sviluppo della scolarità di massa aveva questo intento sebbene oggi meglio sappiamo che non è solo questione di scuole. Tutto però ha una super-condizione a priori: il tempo. Se avete tempo per tutto ciò vuol dire che o non lavorate o lavorate poco, altrimenti con poco tempo rimasto dall’attività lavorativa, ognuno di questi punti sarà sotto-determinato. La quantità di tempo dice di quale ordinatore governa la società, se è politico o economico. I greci usavano la schiavitù per riservarsi il tempo per tutto ciò e quindi fare politica in proprio invece che accumulare denaro e simboli di denaro

Alcuni pongono di necessità una maggiore o tendenziale eguaglianza economica, ma è una falsa precondizione poiché se messi in condizioni di agire pienamente nel senso politico democratico provvederanno come prima cosa perseguire questa loro comprensibile necessità. E comunque una democrazia deve essere compresa tra due severi limiti di diseguaglianza economica e culturale contenuti e continuamente abbassati.

Si noti come oggi, nella democrazia liberale di mercato, di informazione e conoscenza siano monopolio delle oligarchie mentre il dibattito vis-à-vis non esiste anche perché siamo sia spoliticizzati, che de-socializzati e individualizzati. Nessuno si cura più della ridistribuzione anche perché servono fasce ignoranti per svolgere i lavori di più basso livello mentre la ritenuta “alta formazione” è costosa e il capitale culturale ha peso -a volte- anche più di quello economico e finanziario. Per altro anche l’alta formazione è solo legata alle pratiche professionali o econocratiche e comunque ha soglie di accesso.

Quanto al tempo, è dalla convenzione ILO del 1919 che è settato sulla formula 8-8-8, fatto salvo il recupero del sabato mattino qualche decennio fa. Ma di recente, la mitologia del 7/24 sta spingendo ad investire sempre più tempo nella disponibilità professionali anche grazie alle catene info-digitali. Ci nacque il movimento operaio sulla riduzione dell’orario di lavoro e sebbene andiamo incontro a spaventose e repentine scomparse di necessità di produrre direttamente come esseri umani, visto l’impeto della diffusione quali-quantitativa delle macchine elettro-digitali, nonché date le considerazioni culturaliste fatte, risulta enigmatico il fatto che nessuna intelligenza critica abbia pensato di portare il tema i dibattito o direttamente in politica. Viepiù risalendo a Marx che più e più volte nei suoi testi, indica la riduzione dell’orario di lavoro come unica ed effettiva precondizione per l’avvento del “regno della vera libertà”. Avendo potuto far quella fortunata scelta sul piano personale, non posso che confermare.

Ormai l’introiezione del quietismo politico è totale, siamo in effetti sempre più incarcerati in forma totalitarie, spoliticizzate, semi oligarchiche (anche senza “semi-“), semi autoritarie e del tutto postdemocratiche secondo giudizio comune ed esperto. Un futuro infrastrutturato sempre più dall’info-digitale, bio-psico-comportamentale promette ulteriori chiusure, controllo, manipolazione. La forma neoliberista che è una estremizzazione della tradizione liberale spinge con forza oltre ogni limite che supera di slancio i minimi ed ultimi residui di principio politico.

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Per atterrare alla storia recente, la più recente svolta anti-“democratica” avvenne a partire da complessi fatti, azioni e ragionamenti, prodotti dalle ansiose e preoccupate élite soprattutto  a partire dalla prima metà degli anni Settanta, ovviamente a partire da Washington. Il punto era presentare il primato necessario del politico come “governabilità” diciamo implicitamente, governabilità della sempre maggiore complessità economica, finanziaria, demografica, politica, sociale. Il potere politico andava aspirato in alto, in mani sicure ed esperte (lì si comincia col refrain dell’espertocrazia), la politica doveva diventare un brutto ricordo di eccessi, doveva rendersi irreperibile ed infrequentabile. Del resto, negli Ottanta, si offrirono invece a piene mani le promesse dell’edonismo individualizzato, narcisista, egoico.

Siamo alla fine del processo di de-democratizzazione, ma dispiace sottolinearlo, la biforcazione tra democrazia reale e pervertita risale alle illusioni costituzionali, al secolo che portò dal repubblicanesimo elitista al rinominarsi democratici per forme con niente sostanza. Noi, non siamo mai stati davvero democratici.

Platone, Aristotele, Polibio, Machiavelli, Bodin, Hobbes, Locke, Montesquieu, Burke, Fichte, Kant, Hegel, Stuart Mill il gotha del pensiero politico occidentale, quando non sono silenti sulla democrazia sono contrari o ferocemente contrari. Filosofi per cui il loro pensiero politico è poi intrecciato a quello più generale, dando un tono strutturale al rifiuto dell’autonomia popolare. VI ci sono accordati anche gli economisti da Pareto a Schumpeter a Hayek. Tra Spinoza e Rousseau rimane poco e talvolta confuso com’è nella tradizione comunista marxista-leninista poi definitivamente troncata da Stalin.

Per ragioni ignote, c’è lo sterminio totale delle fonti democratiche dei tempi ateniesi, una frase di Protagora, qualche discorso di Demostene, l’orazione di Pericle sempre che Tucidide (con simpatie oligarchiche) l’abbia riportata a dovere. Non ci è stato invece risparmiato l’Anonimo oligarca, Senofonte, tutto Platone ed in parte Aristotele. Nulla ci è arrivato dalle tante altre poleis democratiche greche, siciliane, delle Magna Grecia.

Hanno portato alcuni anche a scattare nel riflesso critico che constatando comunque gli errori politici della tormentata stagione della democrazia ateniese, dicono che ci sono ben evidenti ragioni per rifiutarla. Non si capisce però gli “evidenti errori”, tragedie, catastrofi, drammi, collassi riempienti la grande e sinistra piscina di sangue umano di cinquemila anni di oligarchie dove vadano conteggiati.

Queste menti semplici, ti parlano di schiavi, stranieri, donne, talassocrazia e del monarca di fatto per quanto elettivo Pericle di duemilaquattrocento anni fa come se avessero davanti uno stupido che ragiona di politica stupidamente, come loro, a “modelli”.

Da quanto abbiamo detto si tratta di riconoscere lo statuto di democrazia a quella antica esperienza storico-politica, andare ad estrarne i principi, rielaborali, provare a ripiantarli adattandoli ai nostri ben diversi paesaggi socio-storico-culturali revocando l’utilizzo del termine al repubblicanesimo delle oligarchie.

Che è poi quello che andremo a fare nel prossimo articolo dove affronteremo in positivo l’ipotesi di una democrazia radicale, alla luce della dicotomia “democrazia o barbarie” che vi fa premessa.

(Questo articolo è 1 di 3 a seguire)

 

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DEMOCRAZIA O BARBARIE (2/3): LA DEMOCRAZIA RADICALE

Ma cosa significa autonomia?

Autos, sé stesso¸nomos, legge.

È   autonomo chi dà a sé stesso le proprie leggi.

C. Castoriadis, La rivoluzione democratica, Eleuthera, 2022

In Occidente, da tempo vige un sistema politico-giuridico detto “democrazia”. Riconosciuto ormai in crisi nel senso comune non meno che in quello esperto, terminale o meno non si sa, si presume esso abbia invece avuto una fondazione corretta e giusta rispetto al concetto. In Italia, ci si appella a spirito e lettera della Costituzione, ad esempio e se ne rimpiange la vigenza ormai corrotta.

Un democratico radicale, purtroppo, non riconosce neanche a quel tempo e forma piena di buona intenzione il crisma di “democrazia”, si trattava di repubblicanesimo e tra le due forme c’è differenza. Ecco allora che il democratico è radicale, semplicemente nel senso che intende la democrazia come significato alla radice “Essere radicale significa cogliere la cosa alla radice (Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione)”. Si tratta quindi di un problema di nome e cosa dove la cosa è la radice che dà crisma al nome. Qual è allora quella radice?

Semplicemente il sistema che in atto storico aveva quel nome anzi quel nome ha battezzato. Si tratta della democrazia dell’Antica Atene. Cornelius Castoriadis, più di ogni altro[i], può dirsi teorico della democrazia radicale ed ha più volte specificato che -ovviamente- nessuno si sogna di intendere quella esperienza politica come un “modello” da copia-incollare senza riguardo ai diversi contesti e tempi assai diversi. Tra i duemila e cinquecento anni di distanza ed i trentacinquemila maschi adulti con schiavi come unici detentori di diritto di cittadinanza, quindi politici, ed oggi, c’è ovviamente un abisso non colmabile. Si tratta invece di operare una “estrazione di principi”, principi poi da rielaborare e declinare nei nostri contesti e tempi ben diversi.

È quello che a modo sua fece il liberale Benjamin Constant quando si pose il problema della continuità e trasformazione della “libertà degli antichi e dei moderni” (Discorso del 1819 pubblicato e circolante poi nei successivi decenni). A modo suo ovvero oligarchico liberale. Constant, più di ogni altro, è tra coloro che hanno pervertito una antica tradizione luminosa e splendente che retro fondava lo stesso senso di orgoglio storico occidentale, orgoglio culturale storico e politico prendendo la parola e mettendoci sotto una variante in aperta contraddizione.

Democrazia radicale nasce nel 462 con la riforma di Efialte, poi ucciso, fino al 404, dentro un più ampio periodo democratico durato dal 508/7 (riforma Clistene) al 322/1 (abolizione da parte macedone). Venne interrotta da due riprese violente degli oligarchi, la sua seconda fase è detta politeia ed ha caratteri meno tumultuosi e costituzionali, ma a tratti demagogici. Tale periodo, complessivamente, sfiora i due secoli o li supera a seconda di quanto si vuole includere l’opera fondativa di Solone. La democrazia radicale ha gradi parentela con l’anarchia ma poiché è votata ad amministrare uno stato vi differisce in realtà alla radice.

Siamo quindi in riflessione per l’ambito storico-culturale europeo occidentale, non certo per altre dimensioni mondo. Ora qui non siamo in un trattato di “scienza” politica; quindi, non possiamo entrare troppo nel merito. Nel voler tentare però la consigliata “estrazione dei principi” un primo elenco dovrebbe essere:

  1. Il sistema elettivo è ritenuto da tutti gli studiosi di storia e teoria politica proprio dell’ambiente aristocratico, non democratico. Ciò poi non vuol dire che ne è escluso l’utilizzo in via di principio, anche ad Atene c’erano cariche elette. Comunque, il sistema della delega non può -in prospettiva- essere il portante e senz’altro non l’unico.
  2. Il sistema democratico dovrebbe prevedere l’estrazione a sorte. Limitato da una serie di fattori poco noti ma già applicati ad Atene ovvero l’esame di idoneità del candidato nei demi, la sua effettiva preparazione e probità, il suo offrirsi spontaneamente ma conscio degli impegni di rendicontazione finale della sua carica e pena per gli errori più gravi eventualmente commessi, la limitazione del mandato, la sua revocabilità, la sua non ripetizione, il suo essere di servizio civile e non di carriera. L’estrazione era quindi su liste limitate, qualificate, di consapevoli dell’impegno. Solo uno stolto si priverebbe di tecnici, esperti, studiosi. Basta consultarli attivamente senza che qualche matto decida che debbano esser loro a governare per conto della loro oligarchia di riferimento. Un sistema di esperienze cumulate si può mantenere negli ambiti di governo come consiglieri senza poteri.
  3. Il sistema democratico dovrebbe essere una forma politica attiva e decisionale a vari livelli che va dal locale al nazionale secondo logiche, flussi e riporti molto più densi e complessi di quelli che ci sono nei nostri paesi. Per fare incursione nei tempi e luoghi nostri forse dovevamo abolire le regioni più che le province. Forse si sottovaluta il fatto che il “demos”, prima che la generica “cittadinanza” o “popolo”, era una precisa unità territoriale di tipo circoscrizionale. Furono le riforme di Clistene nel senso di queste unità comunitarie piccole a dare inizio alla democrazia classica ateniese (Dieci tribù, trenta trittie, 139 demi scompaginando logiche famigliari, di classe e territorio di residenza). Là si sviluppò la essenziale forma del “vis à vis” ovvero il collante sociale interpersonale, la reputazione, la fiducia, l’intesa, il rispetto anche di chi non ci assomiglia poi così tanto e tuttavia, ci piaccia o meno, è concittadino.
  4. C’è poi una questione essenziale di tipo culturale che è tanto affascinante quanto qui intrattabile. Una democrazia politica esiste se immersa in un soffice bagno morbido e pervasivo di cultura politica, cultura generale, informazione, conoscenza qualificata e diffusa, dibattito e partecipazione continuata, appassionata, eticamente doverosa. L’ambiente culturale democratico era in sincronia con la più straordinaria infiorescenza di filosofia mai registrata nei consessi umani occidentali. Teatro, lessicografia, retorica, logica, poesia, scuole dell’espressione e del ragionamento. Purtroppo, qui da noi, anche quando s’è fatta riflessione critica e dibattito su come deve essere una democrazia, lo si è fatto in logica giuridica, importante certo, ma troppo meccanica per generare effettiva democrazia in atto. Nei fatti, isonomia e filosofia nascono intrecciate. Tutto ciò era a forma diretta ed indipendente il sistema che oggi governa la rete dell’informazione alla cittadinanza, ovviamente di proprietà di capitale o di variabile maggioranza di governo.
  5. L’espressione diretta degli interessati alle decisioni politiche va ricercata in più modi ed è decisiva. Questo è una parte dell’aspetto detto “diretto” ma l’assemblearismo non spiega tutta la democrazia, nelle nostre società poi sarebbe assai difficile da perseguire come fondazione unica. I 6000 votanti medi a scrutinio segreto nell’Assemblea generale, erano un quinto gli aventi diritto, ma si esprimevano almeno quaranta volte l’anno non una ogni quattro anni. Era per altro in sistema binario col Consiglio dei Cinquecento che ne aiutava la razionalizzazione. Vasta e molto complessa però era sia la macchina delle istituzioni statali, sia il sistema politico che si esprimeva nei demi. Sulle questioni attinenti i criteri di decisione, quando unanimi, quando a maggioranza, c’è da scendere in dettaglio. Ogni partecipazione politica aveva un minimo di remunerazione per quanto poco più che simbolica. Una cosa era certa, fare politica ed amministrare la cosa pubblica era rischioso e senza profitto economico diretto o indiretto.
  6. Pur non vietando i partiti, una vera democrazia dovrebbe puntare -nel tempo- a non averne bisogno (Simon Weil). Mentre si dovrebbero fare più libere associazioni tra gente che più o meno la pensa allo stesso modo ma anche no, l’importante è tornare a discutere, approfondire, condividere. Questi gruppi omogenei relativamente c’erano anche in Atene, ma si forza la definizione a definirli propriamente partiti.
  7. Valori decisivi e fondanti sono ovviamente l’isonomia, l’isegoria, l’isocrazia (-iso, lo stesso, l’uguaglianza) la parresia. Non gli spieghiamo qui ma chi vuole se ne potrà facilmente fare una idea con una piccola ricerca. Segnalo con paressia, l’ultimo corso tenuto da Micheal Foucault al College de France, un tema di nuovo radicale, ma produttivo e concreto, sforzarci di dirci e sopportare la verità nel senso di quella che ci sembra tale.
  8. In una democrazia, la lotta di classe, la lotta ideologica, financo la sperabilmente poco probabile –stasi– (guerra civile), ogni conflitto si dovrà operare internamente, tramite i meccanismi politici e giuridici, appunto, democratici. Si fece una legge antica, prima della democrazia, che obbligava a partecipare alla guerra civile, si veniva puniti perché non si faceva la guerra civile e non per aver fatto la guerra civile! Perché non si prendeva parte, massimo insulto ai principi di comune convivenza.
  9. In pratica, democrazia è solo il regolamento della dinamica politica in un sistema sociale ordinato del politico e non dall’economico. Tutte le ideologie e le posizioni di principio, le preferenze etiche e le immagini di mondo sono invitate ad alimentarla. Discutendole e pervenendo a sintesi o anche senza sintesi, tanto alla fine si dovrà pur decidere qualcosa di determinato. Governare ed esser governati a turno, migliora dell’uno e dell’altro per via dell’immedesimazione e la doppia esperienza acquisita, bilanciando gli eccessi.
  10. Il sistema democratico ha come obbligo il cercare di ridurre costantemente le distanze tra fasce di popolazione (economiche, culturali etc.), è una società corta che oscilla intorno un “giusto mezzo” che però è equilibrio che non si raggiunge mai, pena la morte del sistema. In termini di geometria politica, se la forma del potere dell’Uno e dei Pochi è triangolare e piramidale, la democrazia è circolare e sferica.
  11. La democrazia deve avere una produzione giuridica costante, è un regime auto-istituente e deve cambiare o ritoccare o evolvere sé stessa di continuo, democraticamente. Questo stesso catalogo è solo uno dei possibili. L’unica forma legittima di democrazia sarà quella che la democrazia in atto si darà.
  12. Una piena democrazia non si raggiunge mai, è un tendere a… Essa è stesa nel tempo progressivo, si costruirà col tempo necessario. Abbiamo visto più e più volte, soprattutto con le “rivoluzioni” come comprimere il tempo del cambiamento di cose complesse porti a varie catastrofi. Non ci si può far niente con la realtà complessa, il suo tempo naturale prescinde dai nostri desideri di immediatezza semplificata.
  13. L’ostracismo ovvero l’espulsione dalla convenzione civile di chi non gioca il gioco correttamente, è forse la più antica delle pratiche punitive dei gruppi umani. Lì dove cacciare il reprobo dal gruppo, nel lungo Paleolitico, significava dargli morte certa per prevalenza della Natura. Nelle città-Stato democratiche, era la confisca dei diritti civili, fiscali, politici, giuridici, a volte la fisica cacciata fuori le mura. È la massima sanzione della comunità ed ha un alto valore simbolico.

Ciò comporta almeno altri due punti strategici rilevanti.

Il primo è la sostituzione netta e totale delle funzioni ordinative della società dall’economia alla politica. Economia, finanza, sistemi proprietari, collocazione e regolamento di mercato, altre forme economiche non di capitale verranno evoluti e decisi per prova ed errore, ma considerando che non si capisce perché li consideriamo uno alla volta e reciprocamente alternativi. Una follia per normare attività umana sociale così complessa e determinata da variabili contesti. Le forme economiche dovranno pluralizzarsi. Ma soprattutto perdere progressivamente il ruolo ordinativo, che dà ordini, che fornisce l’ordine.

La seconda è che democrazia consuma molto tempo (autoformazione continuata, acquisizione conoscenza, bagno informativo, ridistribuzione quanto più egalitaria possibile di tali acquisizioni e caratteristiche valide per ogni cittadino, capacità e facoltà di discussione e dibattito, pubblico e privato etc.) quindi i cittadini debbono averne più di quanto la formula astratta 8-8-8 neanche in vigore oggi, consenta. Del resto, oggi andiamo senza averne neanche contezza, verso una riduzione della necessità di lavoro umano, per varie altre ragioni, se ne dovrebbe fare di necessità virtù.

Ne consegue che la prima e fondamentale battaglia delle idee dovrebbe avere ad obiettivo la riduzione dell’orario di lavoro, ovviamente salvo il reddito e la facoltà di ridistribuzione dello stesso. Non importa se l’obiettivo è praticabile in concreto, va posto come battaglia culturale per infrangere la depressione acquisita dal “There is no alternative”. Ci si deve liberare dell’introiezione dei limiti di compatibilità del sistema se si vuole combattere il sistema. E si deve sfidare lo stesso sistema prevedendo ed anticipando la certa riduzione di lavoro umano quale prevedibile per lo sviluppo delle nuove tecnologie info-digitali. Così si recupera anche leadership culturale, autonomia di analisi, capacità di parlare di realtà da tutti condivisa.

Una cosa è certa o dedicate tempo a produrre e consumare o a fare politica per trasformare le società e le sue forme ordinative.

Quanto alla funzione fondamentale di dialogo e dibattito la democrazia ha a che fare con la doxa non con l’episteme. Avrebbe anche a fare con gli endoxa di Aristotele, ma non è questo il luogo per parlarne.

Se questo è il modo di intendere il termine-concetto “democrazia” restaurato per riavvio e ripristino, si capirà perché non si riconosce all’attuale forma diritto di uso della sua espressione. La cosa detta democrazia al tempo in cui il concetto è nato, non corrisponde neanche un po’ a quella attuale. Altresì quella con quei principi era democrazia per quanto agli inizi, contradditoria, elementare per molti versi, imperfetta certo. Strano atteggiamento però abbiamo verso quella forma antica eppur gloriosa, una delle cose che fa grande la nostra civiltà, la giudichiamo su un tempo-vita di scarsi due secoli, mentre alle forme del monarca e del tiranno, dell’aristocrazia e dell’oligarchia diamo la storia di cinquemila anni di varianza e varia applicazione.

[La maggior parte delle informazioni riportate su la democrazia ateniese sono tratte da Mogens Herman Hansen, La democrazia ateniese del IV secolo a.C., LED Milano 2003. Con la Costituzione degli ateniesi di scuola aristotelica, universalmente ritenuti i testi più documentati).

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La democrazia reale ha forma, dinamica e ruolo che ha il mercato in economia, un sistema auto-organizzato, l’unica forma conosciuta di sistema adattativo in complessità. Solo che l’analogia è imprecisa. Un mercato è fatto di procedure impersonali, una democrazia è fatta di essere umani intenzionali.

Essa, quindi, risulta la miglior forma per fasi storiche come queste in cui il cambiamento è radicale, continuo, profondo, inedito (non se ne ha esperienza pregressa). Dovendo rincorrere adattivamente tale mondo che corre chissà dove, l’ente auto-organizzato è l’unico che può farcela, anni di studi sulla complessità in più campi questo dicono.

Certo sappiamo quanto tempi di decisione ricattino le procedure democratiche, di contro però una democrazia reale trasmette informazione reale in diretta alle sue componenti che così aumentano coscienza di processo, accettandone meglio incertezze, contraddizioni, ritardi, non esponendosi al malcontento da delusione che ha sempre offerte di esser sanata da qualche malintenzionato politico.

Purtroppo, forme mentali ereditate dalla storia e filosofia politica del XIX secolo, arrivano fino a sognare nuove forme economiche opposte alle vigenti capitalistiche. Ma qualcuno s’è poi posto il problema di come perseguirle? Non so, c’è davvero gente che crede che col sistema repubblicano liberale, arriveranno a costruire una massa critica politica in grado di costruire quel tipo di società? Quel sistema è strutturalmente fatto per riprodurre oligarchie. Che da un macchinario oligarchico spunti fuori un sistema socialista è pensiero magico.

Il primo nostro dovere oggi dovrebbe essere ripoliticizzare la società ed il dibattito pubblico. Venendo da anni ed anni di desertificazione e degrado del politico, tocca alzare la voce ed imporre al dibattito pubblico un riorientamento, un risveglio e richiamo dalla fuga nell’impotenza. Noi non decidiamo davvero più nulla della nostra forma di vita associata, siamo soci passivi. Di contro, sembra che qualcuno pensi che da cinquemila anni di oligarchie, oplà, usando il “metodo x” dimagrisci dieci chili in una settimana, in un mese impari il mandarino, in tre sei verso il Sol dell’avvenir. Se l’alternativa è certa sempre possibile, meglio dirci in sincerità che non è dietro l’angolo. Per questo parliamo di teoria perché senza non c’è azione efficace.

I democratici radicali hanno sempre due fronti. Quello delle oligarchie imperanti e i democratici degenerati, i demagoghi. I demagoghi si travestono da democratici per benefici personali, essere leader adorati, essere eletti a qualche funzione che dà reddito e prestigio, fingersi dalla parte del popolo per poi usare il popolo per diventare oligarchi 2.0 o piccoli tiranni. Occorre evitare che inquinino le posizioni sinceramente democratiche con la loro sciatteria interessata.. Per non parlare di quelli che si limitano a sfruttare disagio psichico e povertà culturale altrui, agitando mondi di oscuri padroni del mondo per spaventare e raccogliere il riconoscimento per aver detto finalmente la tremebonda Verità. Elite, salotti, gruppi di interesse e conventicole certo esistono, si pensi solo ai massoni che le nostre democrazie accettano senza fare una piega ed anzi, qualcosa più che “accettano”. Ma si fallisce diagnosi del mondo a ridurre le sue dinamiche alle intenzioni degli ottimati, oltretutto è fargli troppo onore.

I democratici radicali non debbono ricorrere alla scusa del potere troppo forte per avere ascolto e condiscendenza delle loro richieste, le richieste non si richiedono, si pesano e per pesarle, il democratico radicale dovrà sempre rivolgersi in primis al proprio simile, costruendo massa. Oggi, in politica, abbiamo il riflesso a rivolgerci sempre in alto, ma dovremmo prima rivolgerci a chi ci sta accanto. Le masse poi sono destinate al conflitto, altro che “richieste”.

Alla fine, il problema della democrazia è tremendamente semplice. Una tendenziale eguaglianza a livello di conoscenza ed informazioni su natura e possibilità realistiche della propria società, farebbe dell’intero sociale l’unica realtà naturale che possa gestire sé stessa. Il problema è che questa semina redistributiva molto non la vogliono fare, usano conoscenza ed informazione come proprio “piccolo potere”, magari mentre si proclamano dalla parte del popolo. I tempi tra semina e raccolto vanno spesso anche oltre la singola estensione di vita personale, toccherebbe avere una narrazione che esalti l’eredità che lasciamo come in antichità c’era quella su quella su ciò che ricevevamo dagli antenati. Ci sono da superare i meccanismi di “servitù volontaria” e c’è ovviamente la strenua resistenza delle élite con mezzi straordinari. Infine, son sempre d’intralcio, le piccolezze umane.

Tuttavia, abbiamo modelli a cui riferirci, la chiesa cristiana ad esempio. Non v’è dubbio che l’unico grande teorico della politica culturale strategicamente attiva, Antonio Gramsci, trasse ispirazione diretta dall’osservazione ed analisi del complesso storico della chiesa cristiana che in Italia aveva la sua patria storica. Dalle prime predicazioni alla formazione dei primi piccoli gruppi, agli ordini mendicanti (francescani e domenicani) obbligati ad andare tra la gente ed ottenere riconoscimento, salvando così i destini della chiesa stessa ai tempi in crisi di credibilità e fiducia. A seguire le proprie scuole, l’egemonia dell’immaginario, la vicinanza pratica agli svantaggiati che catturò la fiducia, menti, cuori e braccia. Avviene anche nel mondo arabo e sudamericano. Certo, occorre accettare la dilatazione del tempo, lavorare anche non in vista del proprio tornaconto. Ma è perché pochi iniziarono a loro tempo, che ci troviamo sempre a dover riiniziare daccapo.

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Quella della democrazia radicale, non può che essere una prospettiva lunga nel tempo, da costruire per tentativi ed errori, autocorreggere, sperimentare pronti a decelerare. Ma costruire un percorso significa comunque approcciarlo, farvi primi passi, esplorarlo da subito. Il concetto di “tendere a…” dice che si deve porre sull’orizzonte che si muoverà con noi rendendosi irraggiungibile, deve essere una sorta di “desiderio irresistibile” che ci spinge a rincorrerlo e sebben mai raggiungerlo, muoversi nella sua direzione. Nel cammino però, costruiremo le sue stesse condizioni di possibilità future e le prime forme valide nel presente.

Chi scrive non immagina o sogna un partito, né un movimento politico da accendere chissà come e con chi. Si rivolge ai democratici reali, agli intellettuali più di altri, i costruttori di pensiero. C’è bisogno di azione, altro che di pensiero! Tuonano subito i pragmatici. Peccato che, come genere, ci siamo evoluti per tre milioni di anni, pensando prima di fare o non fare o anche fare e tentare ma poi pensare. C’è bisogno di pensiero ed una volta tanto, costruttivo, positivo, di esercizi di stie critico sono piene le biblioteche. Il capitalismo non lo supereremo mai per rosicchiamento critico-critico. C’è bisogno che l’intelletto torni –en meson-, in mezzo alla piazza lì dove c’è anche il mercato, lì dove c’è la gente. Alzare il livello dell’intelletto generale una priorità per tutti noi. Ognuno faccia il suo, la Via del cambiamento non ha monopoli, stiamo talmente a pezzi che vale tentarle tutte e del resto il modo “prova ed errore” tante volte ha dato dimostrazione di portare benefici. Ai poveretti amanti della matitina rossa e blu, forse converrebbe pensare alle responsabilità che hanno sul dibattito pubblico invece che fare da ammazza idee in piena sindrome nichilista, giustificatoria della propria insipienza.

Parlando assieme anche di come porre il periodo della necessaria “lunga traversata” a tutto ciò lontano nei tempi, a servizio di un’azione immediata almeno del ripristino dei livelli minimi di democrazia, nell’informazione, nella conoscenza, nella cultura, nell’educazione civica, nel rispetto reciproco, nel ritorno della politica con idee ed aspirazioni, del dialogo. Per ripristinare la vigenza ordinativa del politico ed usare il politico per la trasformazione sociale, non abbiamo altro modo che costruirci una sistema sempre più democratico, nel reale senso del concetto.

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Nei prossimi tre decenni, le società occidentali ma in specie quelle europee, saranno chiamate a profonde trasformazioni adattative ad un contesto mondo del tutto inedito. Questo dà maggiormente il senso di questa nostra perorazione verso una democrazia reale. Ci sono infatti non sottovalutati motivi ideali di fondo, tuttavia l’urgenza è un’altra: solo un sistema autorganizzato mostra facoltà adattive veloci e complessive quali il ritmo del cambiamento imporrà. Porre come esito alternativo la barbarie, non è concessione romantica o catastrofista, è muoversi lungo l’asse ordine o disordine. Una democrazia reale è in grado di gestire un disordine moderato adattandosi ed adattandolo, altrimenti, oltre certi livelli di oscillazione, le richieste imperative di Ordine! a qualsiasi costo, ci faranno ripiombare un qualche tragedia storica quale qui in Europa abbiamo collezionato in abbondanza di casi.

Per liberarci da questa vera e propria coazione a ripetere e sbloccare la nostra evoluzione, abbiamo bisogno di ripristinare il dominio del politico ordinato da un modo democratico che porti i Molti a diretto contatto con la realtà a cui dovremo adattarci modificando le nostre forme sociali, le mentalità, il nostro essere soci naturali di una società di cui dobbiamo definire il comune interesse generale senza tutori, in maniera finalmente adulta, uscendo da servitù volontaria e infantile minorità passiva.

Invitiamo quindi i più che è possibile a considerare la trincea di DEMOCRAZIA o BARBARIE come luogo comune in cui attestarci, lo impone la fase storica come gramscianamente s’imponeva realisticamente la guerra di posizione rispetto a quella di movimento.


[i] FONDAZIONI TEORICHE DI DEMOCRAZIA RADICALE: Esistono almeno due ambiti teorici che muovono da e per questo concetto. Il primo è centrato sul pensiero del filosofo greco-francese Cornelius Castoriadis. Il secondo è una costellazione di filosofi e pensatori di politica che comprende a vario titolo Laclau-Mouffe, con intorno Zizek, Ranciere, Badiou, Negri, Hardt, Deleuze, Lacou Labarthe, Nancy, Abensour, Agamben in parte Foucault e con riferimenti al lavoro di Lacan e Deridda. La posizione di Roberto Esposito ci sembra più mediana tra le due. La nostra iniziativa di politica culturale è orientata dal primo. Il senso quindi di “democrazia radicale” nel nostro caso è semplicemente dovuto alla questione delle radici di significato. Radicale quindi poiché va alla radice in senso genealogico, poiché dovrebbe esser bene comune, non si capisce chi la immagina radicale in un senso estremo della sensibilità politica. Disputarci il senso prima di averla è il miglior modo per non averla, mai. Confesso un certo disagio teorico verso quella costellazione populista, post-moderna, idealista e talvolta platonica, psico-linguistica, a tratti confusa e astrattamente ribellista franco-italiana. Cercando radici, mi tengo il greco.

C. Castoriadis, è stato un filosofo, critico sociale, economista, psicoanalista greco-francese , autore di L’istituzione immaginaria della società (Mimesis edizioni, Milano, 2022) e co-fondatore del gruppo Socialismo o barbarie. Si segnala che, come “economista”, il greco è stato per svariati anni il capo economista (dirigendo e coordinando una squadra di 130 tra economisti, econometristi, statistici ed informatici) dell’OCSE-OECD per la Divisione degli Studi sulla Crescita. Il gruppo “Socialismo o barbarie” agì tra 1948 e 1967, con la collaborazione, tra gli altri, di Claude Lefort e Edgar Morin. Volendo continuare il suo sforzo intellettuale, pur con le nostre inadeguate ed insufficienti forze, riteniamo che oggi la trincea vada posta non sul socialismo ma sulla democrazia nel suo senso ripristinato. Per questo, fa cornice della nostra riflessione l’idea del bivio fondamentale dato da DEMOCRAZIA o BARBARIE.

 

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DEMOCRAZIA O BARBARIE: PERCHE’ UNA PROSPETTIVA DI DEMOCRAZIA RADICALE È INDISPENSABILE (3/3)

Tutti gli uomini sono intellettuali, si potrebbe dire perciò;

ma non tutti gli uomini hanno nella società la funzione degli intellettuali.

A. Gramsci, Quaderni dal carcere, Quaderno 12 (XXIX) § (1)

Noi esseri umani viviamo su un pianeta. Negli ultimi settanta anni, ci siamo triplicati e lo abbiamo fatto partendo già dalla ragguardevole cifra di 2,5 miliardi di persone. Un evento del genere non è mai avvenuto nella storia umana, per dimensione e velocità del fenomeno. Nel 2050 ci saremo quadruplicati e quindi il fenomeno sarà ancora più denso e veloce, un solo secolo per quadruplicarci.

Dentro la definizione collettiva di umanità, ci sono le civiltà. La nostra, la civiltà occidentale ed europea in particolare, è passata dal pesare circa un terzo dell’umanità di inizio XX secolo, ad un sesto. Ha cambiato in suoi pesi interni visto che gli europei si sono maggiormente contratti in favore dell’area anglosassone. È precipitosamente invecchiata. Oggi il quarto quarto dei duecento stati nei quali è ripartito il mondo in sistemi giuridico-politici statali, mostra indici di riproduzione men che dimezzati, sono tutti paesi sviluppati e ipersviluppati, c’è dentro tutta l’Europa, inclusa la parte orientale che mostra tali indici per ragioni diverse dall’ipersviluppo sebbene di pari intensità negativa.

La nostra metafisica influente si è molto concentrata sull’essere e gli enti, ma ogni ente è ontologicamente fatto e dedito a relazioni o -a due vie- interrelazioni. Ci è tornato utile semplificare e bloccare l’essere e gli enti come in uno scatto fotografico. Se avessimo considerato, come avremmo dovuto fare, l’essere in sé e l’essere in relazione, la questione si sarebbe di molto complicata. Oggi, realisticamente, non possiamo più fare a meno di non considerarlo.

Il nostro immaginario è talmente colonizzato dal sistema di pensiero liberale che usiamo “atomo” o “atomizzati” come sinonimo di monade, di entità irrelata ed isolata. Ma gli atomi sono invero gli oggetti più sociali che esistano, tutti gli atomi tranne un piccolo gruppo di gas detti “nobili”, tende irresistibilmente ad unirsi con altri per fare molecole secondo mirabili “affinità elettive”. Come enti ontologicamente dediti all’interrelazione siamo diventati metafora dell’isolamento dice della potenza della manipolazione dell’immaginario. E’ evidente che proviamo imbarazzo per il concetto di relazione.

Così, dobbiamo notare che la grande inflazione varietale di individui e stati (triplicati anche esse in settanta anni), si è accompagnata ad una enorme arborizzazione del groviglio delle interrelazioni umane: individuali e sociali, intellettuali, interstatali, economiche, finanziarie, valutarie, ecologiche, tecnologiche, dei trasporti, culturali. Tante varietà, tante interrelazioni, in poco tempo storico, un inedito clamoroso, “epocale”.

Varietà in interrelazioni è la definizione di sistema alla base della cultura della complessità. Nella realtà sono e siamo tutti sistemi. Quark fanno protoni e neutroni che con elettroni fanno atomi che fanno molecole. Nel mondo fisico sono tutte molecole, organiche ed inorganiche. Le inorganiche fanno pianeti, asteroidi, stelle e sistemi orbitanti intorno a queste, orbitanti in galassie, orbitanti in ammassi di galassie. Le organiche fanno natura, vegetale, animale, umana.

Ma anche l’universo immateriale è fatto tutto di sistemi. Grafemi, fonemi, alfabeti o repertori di segni sono le varietà con cui componiamo discorsi, scritti, idee, concetti, immagini di mondo, lingue, narrazioni, credenze, ideologie.

Il sistema è proprio di una ontologia complessa. La complessità è data in vario grado dal tipo di composizione e comportamento di un sistema. Ogni sistema può essere -in genere- scomposto in sottosistemi ed ogni sistema è -in genere- dedito ad interrelazione con altri sistemi. Tutto ciò che è la grana dell’Essere si trova in un contesto. Il contesto ha dei bordi, i limiti, entro questi limiti si svolge la danza dell’essere complesso. Il contesto è influito ed influisce sulla danza e su ogni sistema. Quando osserviamo tutto ciò, noi tagliamo il tempo in un preciso modo per quanto arbitrario. È importante, per uno sguardo complesso, avere coscienza del tratto di tempo che si sceglie per l’inquadratura, Se ci piace o ci è utile inquadrarlo come evento o durata o lunga durata o quanto lunga.

Siamo così impercettibilmente passati dalla definizione di una ontologia sistemica ad una gnoseologia complessa. La complessità è quindi cifra della realtà e dovrebbe corrispondere a pari cifra dei nostri apparati cognitivi. Quanto detto degli ultimi settanta anni, dice della inflazione di complessità del mondo, ma proprio la sua brevità e l’inerzia che connota i sistemi culturali, dice anche dello spaventoso ritardo di allineamento tra “rei et intellectus” noterebbe Tommaso d’Aquino. Il nostro intelletto ha ancora le forme del moderno, soprattutto quello del XIX secolo o della sua sfilacciata fine che abbiamo definito post-moderna, ma consiglio di non esagerare l’attenzione e questa coda recente che nei libri di storia meriterà forse una nota a piè di pagina.

Tra mondo naturale ed umano e mondo umano mentale c’è il mondo sociale. Stati, sovrastati, modi economici, società, habitus, culture, ogni altro aspetto componente i nostri giochi di convivenza, che sono ancora quelli moderni e sono riflessi nell’immagine di mondo ovvero la nostra onto-gnosoelogia che abbiamo detto ancora attardata a tempi terminati o terminanti.

Ciò configura il primo e più importante rischio esistenziale per qualità e consistenza stessa della nostra vita: il disadattamento. Il centro del nostro problema oggi non è la sesta estinzione di massa, è il disadattamento ad un mondo cambiato e che continua a cambiare profondamente e velocemente. Due sistemi si dicono reciprocamente adatti quando convivono in una qualche forma ordinata dinamica di compossibilità lungo il tempo, sono disadatti quando questo condizioni di compossibilità sono minime o nulle. Qui, allora, l’ordine va a disordine e da disordine a caos. C’è un preciso limite nella scala del caos, entro il quale si può esistere oltre il quale non si può esistere.

Noi umani, individualmente e socialmente siamo enti intenzionali, la natura non lo è. A noi, quindi, attiene l’espressione “ti devi adattare”. La natura ha altra logica, è sempre adattata anche se produce catastrofi a noi le catastrofi piacciono meno visto l’imperativo ontologico che recita: vivi il più a lungo e la meglio possibile. Ma attenzione, come nel mito greco del Letto di Procuste, adatto si dice in due modi. Noi dobbiamo adattarci alla realtà ma abbiamo anche facoltà di manipolare la realtà per rendercela più adatta. Il primo modo è passivo, il secondo attivo, in tre milioni di anni di ominazione abbiamo fatto tanto dell’uno che dell’altro. Ancora oggi siamo convinti di non dover cambiare se riusciamo con le tecnologie e manipolare il contesto turbolento che ci chiederebbe un cambiamento profondo di alcuni nostri modi di stare al mondo. La nostra intenzionalità tecnologica tende ad avere funzione omeostatica, ma non è detto che ciò sia sempre possibile, dipende dall’entità della discontinuità storica di ciò che è successo nel contesto.

Ecco allora che tornando al nostro rischio di disadattamento per via della corposa, improvvisa e rapida inflazione di complessità reale e il ritardo delle forme cognitive e sociali attardate alla tradizione ancora solo moderna, “dovremo adattarci” significa sia capire bene cos’è la realtà oggi e nell’immediato domani a cui dovremo adattarci, sia capire bene cosa dovremmo fare agendo su immagine di mondo e forme sociali per renderle adatte al nuovo contesto. Ciò presuppone il cambiamento, ma un cambiamento intenzionale, una rarità o unicità anche questa dello sviluppo storico della specie. Di solito cambiamenti e storia li abbiamo subiti e solo dopo, compresi.

Ogni società è una polis e l’attività con la quale la organizziamo e viviamo è la politica. La possiamo così intendere il nostro “veicolo adattivo”. Ci rifugiamo nel sistema sociale-politico-giuridico come faremo in un sottomarino per scendere alle profondità oceaniche, ambiente per il quale non siamo naturalmente adatti. Ci domandiamo allora quale sia la forma politica migliore per adattarci alla nuova era complessa, quale favorisce di più il cambiamento adattivo necessario, quale protegge di più, quale mostra facoltà di migliore intermediazione tra i nostri bisogni di ordine e l’esigenza di avere a che fare con fenomeni e contesti altamente disordinati dall’inflazione di complessità.

Riteniamo, sulla scorta delle esperienze e casi pratici studiati multi-inter-trans-disciplinariamente dentro la cultura della complessità (una onto-gnoseologia dedicata a studiare questo tipo di fenomeni) che i sistemi migliori o forse gli unici utili siano i sistemi adattativi. I sistemi adattativi sono in equilibrio dinamico tra l’essere ed il divenire, sono flessibili, resilienti, autopoietici, autorganizzati. Secondo la disciplina economica moderna, il “mercato” è uno di questi sistemi. Il corrispettivo politico della logica del sistema-mercato è la democrazia. Stante la differenza fondamentale per la quale mentre il mercato è fatto di cose ed atti inintezionali, un sistema politico e sociale umano è pieno di intenzionalità individuale e collettiva. Né il sistema dell’Uno, né quello dei Pochi, mostrano facoltà adattative per tutto il sistema, le mostrano solo per la propria parte. L’unico sistema politico che almeno in potenza le mostra è il sistema democratico, il sistema dei Molti. L’unico sistema che promette di promuovere l’interesse generale di sistema e non quello particolare di parti del sistema.

Ma qui e qui, abbiamo capito che con “democrazia reale” s’intende qualcosa di ben diverso da ciò a cui di solito riserviamo l’uso del concetto. Ecco perché abbiamo sviluppato l’analisi pregressa, per cercare di capire che tipo di sistema ci servirebbe per darci le migliori chance di adattamento alla grande inflazione di complessità.

Tale sistema, in primis, prevede che l’ordinatore sociale (ciò che ordina e dà gli ordini) sia politico e non economico com’è oggi nella natura capitalistico-neoliberale delle nostre società. La nostra società è ordinata a mercato non dalla democrazia, dall’economico non dal politico. Ciò si configura come massimo pericolo, sia perché l’ordine economico in genere, capitalistico e neoliberale occidentale nello specifico peggiorativo, subirà gravi disordini figli di pronunciato disadattamento (si pensi il problema dei limiti ambientali e di risorse, alle diseguaglianze, ai feedback di conflitto geopolitico, il “fine ciclo” storico del sistema moderno), sia perché natura della polis è la politica ed esser natura significa esser adattati in via genetica e genealogica cioè storica.

Dentro un ordinatore politico, abbiamo detto mostra facoltà maggiormente adattive nel governo dei Molti anziché dell’Uno o dei Pochi, ma abbiamo anche detto che tale governo per esser pienamente democratico dovrà non avere intermediari tra la società umana e le scelte adattive, i cambiamenti da apportare. Questo perché è tutto il sistema che deve sapere con cosa ha davvero a che fare, realisticamente, ed è tutto il sistema che deve intenzionalmente decidere il suo interesse generale ovvero le forme che deve darsi per esser davvero adattativo. Tutto il sistema, la società e gli individui componenti, deve essere a contatto diretto col problema dell’ordine e del disordine, della relazione col contesto, con i feedback, con i prezzi delle decisioni per potersi dire pienamente adattativo. Deve cioè darsi consapevolezza per animare la sua intenzionalità.

L’elenco dei problemi cui andiamo incontro non si fa fatica a dire spaventoso: fine del ciclo storico occidentale, divergenza obiettiva delle traiettorie tra Stati Uniti d’Ameria e stati disuniti europei, ripensamento obbligato della stessa consistenza dello Stato-nazione di taglia europeo che proviene del XV-XVI secolo, da cui il necessario ripensamento dello stesso concetto di sovranità, dello Stato, del ruolo delle burocrazie e funzionari di sistema. Dalla trentina di conflitti permanenti su cui si articolerà la transizione Cina-USA al sempre possibile anche se forse non probabile rischio atomico. La stessa evoluzione del fatto militare sia in tecnica e progetto che in acquisizione, anche solo “difensiva”. Un fine ciclo storico che significa anche fine ciclo del sistema capitalistico occidentale, da decenni su rotta “guadagnare tempo” che altro non è stata in grado di fare che distruggere la stratificata varietà sociale tornando alla più semplificata e odiosa delle partizioni Pochi vs Molti. Il senso proprio dell’accoppiata salario-lavoro come gioco principale sociale ed esistenziale, visto che il lavoro umano andrà sempre più a contrarsi per sostituzione macchina o elettronica digitale. Nonché per obbligate cautele ambientali e climatiche o improvvisi divieti di flusso di scambi per ragioni geopolitiche oltreché fine del soddisfacimento dei bisogni individuali mentre si continuano ad ignorare quelli sociali. L’immenso ed inquietante campo dello sviluppo tecnologico in cui andranno fatte ed imposte scelte per contenerne l’impeto potenzialmente distopico. Coì per l’intero, estremamente complesso campo ecologico-ambientale-climatico in sé. Migrazioni disordinanti figlie anche di demografie differenti e differenti geografie. Convivenza di civiltà spinte in modalità condominio dopo l’esser a lungo state stese in spazi molto più ampi e meno obbligatoriamente connessi. Visioni, piani e aspettative sul futuro diverse, perché diversa è la provenienza di ciclo storico. Cosa sanno le nostre popolazioni soggette a questa Grande Transizione di tutto ciò? Come faranno a delegare qualcuno a gestirle sempre esista quel qualcuno quando élite, funzionari, popolo sono ormai tutti su uno standard medio sotto-determinato rispetto alla fase storica? Come altrimenti pensare di modificare il mondo, la forma sociale, le nostre culture per favorirci un adattamento? E che senso avrebbe anche solo adattarsi passivamente a tutto questo che non è un nuovo ordine, ma il caos totale?

Per questo quando diciamo qui democratico, intendiamo democratico radicale ovvero basato su estrazione dei principi della forma antica che diede il concetto di democrazia alla radice. La finta alternativa della democrazia intermediata non è democrazia, ma regime oligarchico sebben temperato. Non è per purismo definitorio che rifiutiamo la versione temperata o per piglio ideale ma per ragioni strettamente funzionali, o il sistema è capace di libera autopoiesi ed autorganizzazione o non sarà pienamente adattativo. In questa fase storica, si consiglia ritornare a pesanti dosi di realismo.

A dire che solo l’esposizione realistica e diretta delle persone alle problematiche di compatibilità tra mondo complesso e forme sociali, darà loro piena facoltà di trovare le soluzioni adattive. Ciò stante la promozione dei principi estratti nelle pregresse analisi. Questa consapevolezza realista, ancorché potenziata da nuovi principi di formazione, informazione, distribuzione e dibattito, previa liberazione di tempo da lavoro travasato in tempo di vita e di cui parte andrà riservata all’attività politica civile, è il cuore della facoltà autopoietica ed autorganizzativa di una reale democrazia. Far fare questo lavoro ad un tiranno per il nostro bene o alle varie oligarchie è condannarsi a vari tipi di esiti barbarici, irrigidimenti, follie egoiste, guerre, sciame di conflitti, acuirsi delle diseguaglianze fino al non improbabile ritorno di forme di guerra civile dentro catastrofi ambientali o climatiche. Proprio quella “stasi” che portò gli ateniesi a reinventare la democrazia come regolazione dinamica del disordine con tendenze caotiche.

Gli Ateniesi non “inventarono” la democrazia, la democrazia aveva lontanissime origini pre-civili ed anche lungo l’emersione mesopotamica della civiltà, probabilmente nelle città-Stato. Sbaglia chi la ritiene una invenzione tarda, un frutto ideale ed utopico del pensiero speranzoso. Forme di democrazia sono l’esito naturale dell’associazione umana nei piccoli gruppi, tanto quanto oligarchia o le élite lo sono dei grandi. Da cui il punto cardinale di ogni teoria politica tra piccoli e grandi gruppi in contesti a loro volta diversi già nota dal XVIII secolo (dal ginevrino Rousseau in poi). Gli Ateniesi furono semmai gli “ultimi democratici”, coloro che provarono ad estendere il formato fino alle massime dimensioni già ragguardevoli di più di 100.00o persone, tagliando diritti (donne), escludendo identità (non ateniesi di generazione), poggiandosi sul lavoro terzo (schiavile), dando al sistema una prospezione coloniale ed indubbiamente commettendo anche un discreta sfilza di errori.

Per questo abbiamo inquadrato il problema come una scelta senza terze vie tra democrazia e barbarie, stante un significato radicale, alla radice, della stessa democrazia. Stante che la soluzione al problema delle dimensioni non può essere quella di B. Constant di mettere uno strato oligarchico tra massa e realtà.

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Si propone quindi una convergenza politica delle tante anime del disagio anti-capitalista e anti-oligarchico. Prima di promuovere la propria visione del mondo (socialista, riformista, comunista, femminista, ecologista, tecnicista, decrescista etc.), abbiamo bisogno di un gioco comune in cui disputarcele con finalità attuative e non solo ideali. È appena ricorso l’anniversario della morte di Antonio Gramsci. Gramsci per primo e fino ad oggi unico, capi che c’è un’altra via, un altro campo del politico, la battaglia culturale. Agire su ciò che la gente pensa è forse via anche più breve e fattiva di agire su ciò che la gente fa, poiché l’uomo fa spesso ciò che prima pensa. Quel Gramsci ordinovista già a suo tempo accusato di “culturalismo”, come se le società umane non fossero in primis niente di meno e niente di più che propriamente “culture”. Un millennio e mezzo di chiesa cristiana mostra un potere di dar forma alla società ed alla mentalità ben maggiore di quanto ha espresso spesso l’agone propriamente politico per non parlare di quello economico. Siamo culture fatte da animali che fanno “faber” e pensano “sapiens” prima di fare, se fare, cosa fare, perché fare.

Nel prossimo intervento, il quarto, che esula da questo trittico teorico, inviteremo chi vuole e può a pensare come si possa costituire non l’ennesimo partito o movimento, ma una forma di intellettuale collettivo che la di là delle nostre differenze ideali e ideologiche, trovi un possibile terreno comune nel promuovere gradi progressivi di democrazia reale, invece che sprofondare nella barbarie. Guardando un filmato della Fondazione Gramsci sulla biblioteca del sardo, c’era la costa di quel “Il tradimento dei chierici” di Julian Benda che denunciava come proprio ai tempi della IWW, gli intellettuali che sono la versione laica dei chierici, lasciarono il presidio della propria funzione culturale trasformandosi in volgari politici. Pensiamoci, traiamo insegnamenti dalla storia, cerchiamo di essere all’altezza del nostro uso pubblico e privato dell’intelligenza. Non abbiamo più una classe sociale di riferimento, non abbiamo più il moderno Principe del partito, va bene, ma siamo sicuri di non poter comunque mettere in campo un soggetto “intellettuale collettivo” col quale promuovere una nuova egemonia di democrazia reale? Come fare? Cosa fare? Da dove iniziare se non discutendone assieme?

Possiamo cercare noi intelletti di cimentarci nella risposta al fatidico “che fare?”, chi altro sennò? Prima di cambiare il mondo, possiamo condividere una idea comune del come farlo, con quale processo prima ancora che con quale finalità? Chi vuol venire ad alimentare l’ennesima onda che si infrangerà contro lo scoglio? prima o poi lo scoglio si sgretolerà, è la sua natura perdere consistenza contro l’acqua testarda. Ma l’acqua testarda ha bisogno di massa ed impeto ondulatorio, ogni sua molecola deve venire a farsi onda.

Superando la trita dicotomia tra rivoluzione e riformismo socio-liberale, invitiamo a puntare sia l’idea che il suo perseguimento pratico verso una forma di democrazia radicale che possa dare casa comune a tutte le molecole di acqua testarda. Che possa darci un veicolo adattivo alla nuova Era complessa. Altrimenti, alle nostre società oggi “come navi in tempesta”, rimarrà come orizzonte, per l’ennesima volta, solo lo scoglio.

 

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