[SinistraInRete] Francesco Cappello: L’astronomica finanziarizzazione di Stellantis

Rassegna 24/12/2024

Francesco Cappello: L’astronomica finanziarizzazione di Stellantis

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L’astronomica finanziarizzazione di Stellantis

di Francesco Cappello

Se i margini di profitto delle grandi imprese si riducono mentre si alzano i rendimenti finanziari l’economia si finanziarizza a discapito della capacità produttiva reale. La finanza parassitizza l’economia reale. Ovviamente non potrà continuare per molto. La guerra è allo stesso tempo effetto e causa di questo stato di cose

macchine invendute 006.jpgStellantis è nata il 16 gennaio 2021 dalla fusione tra Fiat Chrysler Automobiles (FCA) e Groupe PSA. La nuova entità era diventata uno dei principali produttori automobilistici al mondo, con un portafoglio di 15 marchi in tutto il mondo, tra cui Fiat, Peugeot, Jeep, Alfa Romeo, e Maserati, 250.000 dipendenti e un fatturato di 190 miliardi di euro.

È scoppiato il bubbone della profonda crisi che sta attraversando il colosso automobilistico, in termini di calo delle vendite e aumento ingestibile delle scorte che ha portato alle dimissioni di Carlos Tavares, amministratore delegato di Stellantis. Il valore delle azioni è crollato di oltre il 50% rispetto al picco del 2024. Il licenziamento coatto dell’amministratore delegato ha fatto seguito a uno scontro interno con il consiglio di amministrazione che gli ha comunque garantito una buon’uscita da 120 milioni di dollari e il mantenimento nel consiglio di amministrazione.

È di oggi l’annuncio di un piano ambizioso per rilanciare la produzione automobilistica in Italia, che dovrebbe vedere la nuova Fiat 500 presso lo stabilimento di Mirafiori, a Torino, la produzione della Panda nello stabilimento di Pomigliano d’Arco, in Campania, e una triplicazione dei volumi di produzione a Melfi, in Basilicata. A Cassino, nel Lazio, il gruppo promette l’avvio le linee per tre nuovi modelli di Alfa Romeo. Per sostenere questo piano, Stellantis ha stanziato 2 miliardi di euro di investimenti, dichiarando di non aver richiesto alcun supporto economico da parte dello Stato italiano.

A contribuire alla crisi del gruppo c’è sicuramente stata la minore attenzione verso i segmenti produttivi più tradizionali che in passato avevano decretato il successo del gruppo, a favore della transizione troppo veloce verso l’elettrico che ha causato prezzi troppo elevati delle auto elettriche e standard di qualità, sicurezza e sostenibilità ambientale assai discutibili.

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Antonio Prete: Per una critica della ragione militare

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Per una critica della ragione militare

di Antonio Prete

2024.12.19. PRETE.pngNelle guerre in corso l’orrore, giorno dopo giorno, è addomesticato, reso tollerabile perché evocato come notizia tra le notizie, come accadimento quotidiano e usuale: la stessa parola guerra finirà con essere rubricata accanto a voci come borsa, sport, cronaca nera e di costume. Le tante testimonianze di reporter e giornalisti esposti al pericolo ci trascorrono dinanzi agli occhi, con la loro immensa gravità, senza che l’indignazione dal singolo si estenda alla moltitudine, senza che il sapere del dolore sconfinato si trasformi in un grido, senza che la conoscenza diventi denuncia assidua e corale delle responsabilità.

E anche laddove alcune parole potrebbero avere in sé una più adeguata corrispondenza alla sconfinata violenza messa in atto, si ricorre ad attenuazioni, a distinzioni, a rassicuranti comparazioni storiche: la parola genocidio, usata per indicare quel che accade a Gaza, è apparsa e continua ad apparire a molti impropria (anche se il Papa e alcune inchieste delle Nazioni unite l’hanno adoperata). Un’anestesia del tragico permette di non introdurre il turbamento e l’angoscia nel ritmo delle giornate e nelle quotidiane occupazioni.

Se nei decenni trascorsi alcune guerre provocavano tra intellettuali, scrittori, artisti, forti prese di posizione, appelli condivisi, analisi – penso a quel che accadde con la prima guerra del Golfo – ora l’indignazione non trova le vie di una sua rappresentazione diffusa. E persino le condanne emesse, su certificata e incontestabile documentazione, da una Corte internazionale di giustizia suscitano riserve, distinzioni, tentativi di neutralizzazione.

Eppure quel che accade continua a mostrare un’abiezione dell’umano propria dei tempi più tragici della storia. Sui vari fronti della guerra in Ucraina in tre anni ci sono state migliaia e migliaia di vittime, da una parte e dall’altra, e la distruzione di strutture non solo militari ha portato una devastazione di regioni e di paesaggi e di relazioni tra comunità della stessa lingua difficilmente ricomponibili.

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Dante Barontini: Zelenskij verso l’ammaina-bandiera, i giornalisti verso il manicomio

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Zelenskij verso l’ammaina-bandiera, i giornalisti verso il manicomio

di Dante Barontini

Cambia il regista, cambia il copione, l’attore si adegua. Se ne va Biden, sta per arrivare Trump (che ha figli sistemati in altri business, senza stipendi ucraini) e Zelenskij finalmente “scopre” quel che tutto il mondo ha capito da un pezzo: non può vincere la guerra, non può neanche recuperare un pezzetto del Donbass o della Crimea e – siccome non può pubblicamente dire che rinuncia ai territori che sono costati centinaia di migliaia di morti – si affida alla diplomazia futura.

A rendere decisamente meno “teatrale” il passaggio c’è sicuramente la situazione sul terreno, con l’esercito russo che avanza a velocità di crociera negli oblast russofoni e altrettanto fa nel Kursk, il pezzetto di territorio “invaso” dagli ucraini alla ricerca di un “contrappeso” da mettere sul tavolo dell’inevitabile trattativa.

Meglio fermarsi il prima possibile, insomma, piuttosto che attendere una situazione ancora peggiore. Come accade in tutte le guerre ormai perdute.

Cambia il copione, ma il nuovo testo non è ancora stato distribuito a tutta la troupe, sembra. E quindi c’è chi va avanti come prima, come gli ultimi soldati giapponesi nelle isole sperdute…

Certamente non è ancora arrivato ai media italiani, che da un lato ci ammanniscono la rivendicazione dell’attentato di Mosca contro il generale Kirillov come una “grande azione” contro un “obiettivo legittimo” (definizione del sedicente laburista Starmer, sempre più in bilico sulla poltrona da primo ministro britannico, ma patetico “guerriero indomabile” quando parla di Ucraina), dall’altro non sanno più che inventarsi per “condire” quel che avviene sul fronte militare, dove non c’è una buona notizia che sia una.

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Georgios Iliopoulos: Siria. L’oleodotto che ha fatto cadere Assad

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Siria. L’oleodotto che ha fatto cadere Assad

di Georgios Iliopoulos

Il crollo delle forze armate di Bashar al-Assad in Siria e la presa di potere da parte di un’alleanza di varie milizie islamiche presenta molte analogie e per certi versi supera gli eventi del 2021 in Afghanistan, con l’offensiva finale dei talebani e l’umiliante ritiro americano.

In un articolo pubblicato in maniera non richiesta, il 23 febbraio 2016, sul noto sito Politico, dopo l’intervento della Russia in Siria dell’anno precedente, Robert Kennedy Jr. rivela che la CIA ha iniziato il suo coinvolgimento negli affari siriani nel 1949, quasi subito dopo la dichiarazione di indipendenza del Paese.

Nel saggio Perché gli arabi non ci vogliono in Siria”, l’ex senatore democratico e futuro segretario del gabinetto di Donald Trump spiega come il presidente eletto siriano Shukri-al-Quwatli sia riluttante ad approvare il progetto dell’oleodotto transarabo, che prevede di collegare i giacimenti petroliferi dell’Arabia Saudita alle strutture portuali libanesi attraverso la Siria. In occasione della sconfitta del Paese nel conflitto con Israele, gli americani stanno organizzando un colpo di Stato per sostituire al-Quwatli con il colonnello Husni al-Za’im.

Ma, come descrive lo storico della CIA Tim Weiner nella sua opera Legacy of Ashes, prima ancora che al-Za’im abbia il tempo di sciogliere il parlamento e ratificare il progetto dell’oleodotto, viene rovesciato dal colonnello Sami al-Hinnawi, che viene presto rovesciato anche dal colonnello Adib Shishakli.

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Michele Paris: L’Ucraina, Trump e le linee rosse

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L’Ucraina, Trump e le linee rosse

di Michele Paris

La questione cruciale nella crisi russo-ucraina in queste ultime settimane del mandato di Joe Biden sembra avere a che fare con quanto in là Washington e Kiev intendono andare nel superamento delle “linee rosse” poste da Mosca e, dall’altro lato, dove arriverà la pazienza strategica della Russia per non fare esplodere il conflitto con la NATO in attesa di comunque difficili sviluppi diplomatici una volta che Trump si sarà reinsediato alla Casa Bianca. Anche se l’apertura di un qualche dialogo non dovesse essere boicottata interamente da qui al 20 gennaio prossimo, le prospettive di pace restano complicate e il percorso appare molto stretto per mettere d’accordo le legittime richieste del Cremlino con i tentativi di evitare una sconfitta catastrofica da parte dell’Occidente e del regime di Zelensky.

L’assassinio di martedì mattina del generale russo Igor Kirillov e di un suo aiutante a Mosca si inserisce in questo scenario, essendo stato con ogni probabilità pianificato dall’intelligence ucraina (SBU). Proprio da Kiev era arrivata peraltro una sorta di rivendicazione preventiva il giorno prima dell’operazione, quando Kirillov era stato accusato pubblicamente di essere un criminale di guerra, attribuendogli, senza nessuna prova, la responsabilità di una serie di attacchi in Ucraina con armi chimiche.

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Davide Malacaria: Il partito della guerra e l’assassinio del generale russo

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Il partito della guerra e l’assassinio del generale russo

di Davide Malacaria

Ucciso il generale russo che presiedeva alla difesa dalle armi chimiche. I biolab ucraini e le funeste prospettive del partito della guerra

L’assassinio del comandante russo che sovraintendeva la difesa dalle armi chimiche, Igor Kirillov, avvenuto nel cuore di Mosca, è di fatto la risposta del partito della guerra alle insistite dichiarazioni di Trump sulla necessità di aprire negoziati sulla guerra ucraina.

I servizi segreti ucraini si sono affrettati a rivendicare l’omicidio, evitando così che i russi potessero addebitarla ad altri. Resta che è davvero difficile credere che “l’operazione in stile Mossad” (Dagospia) sia opera di Kiev, ma tant’è (gli americani hanno dichiarato, al solito, di non saperne nulla).

“Non si può dire che questo leader militare russo abbia avuto un’influenza significativa sulla guerra in Ucraina – scrive, infatti, Strana – E la sua eliminazione, molto probabilmente, ha scopi diversi dalla ‘vendetta’”.

Ancora da Strana: “Si tratta di una provocazione delle autorità ucraine e del ‘partito della guerra’ occidentale con l’obiettivo di spingere la Russia a intensificare il conflitto per rendere impossibile l’avvio del processo di pace sotto Trump e addossarne la colpa a Mosca, dal momento che Kiev non può contraddire apertamente Trump”.

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Gianluca De Fazio: L’uso politico dell’Apocalisse (e come disfarsene)

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L’uso politico dell’Apocalisse (e come disfarsene)

Note a partire da “Fine di mondo” di Pierpaolo Ascari

di Gianluca De Fazio

Il libro di Pierpaolo Ascari Fine di mondo. Dentro al rifugio antiatomico da giardino è una scanzonata, irriverente e, al tempo stesso, erudita e sagace ricostruzione di un pezzo di storia americana del Secondo Novecento. Una lettura e una interpretazione dell’American Way of Life attraverso un fitto intermondo fatto di film, fumetti, pop culture e apocalissi sempre annunciate ma mai effettivamente accadute. Un racconto fatto di raggi gamma, virili padri di famiglia che costruiscono rifugi anti-atomici come se fossero mobili Ikea, salvifiche massaie che hanno cura a che tutto sia in ordine per il giorno del giudizio e tanti altri baluardi piccolo-borghesi del “ricorso millenaristico all’ultimo consumo” (p. 36), in una sorta di teologia politica in salsa yankee popolata da leviatani d’ogni genere e specie (Godzilla su tutti) per “pensare l’impensabile” (p. 49), la fine di mondo appunto.

Ma dire “pezzo di storia americana del secondo Novecento” vuole anche dire “pezzo di storia europea al di qua della cortina di ferro”, e raccontarla significa, come in un negativo fotografico, narrare un “pezzo della nostra storia”. Ed è questa, tra le molte, una chiave di lettura possibile del libro di Ascari: perché i livelli che lo attraversano, e che l’autore intreccia, sono molteplici, e tutto un rizoma semantico-narrativo lo attraversa, lo fora e lo pervade.

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Leo Essen: L’invenzione della proprietà privata

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L’invenzione della proprietà privata

di Leo Essen

il cuore 1220x600.jpgLa volontà libera – sapersi nell’assoluto – può volere solo in quanto partecipa di quella verità, è sussunta sotto di essa, e ne consegue. L’eticità è lo spirito divino in quanto dimorante nell’autocoscienza, nella sua presenza effettiva. Se la volontà è pensata come il contenuto della libertà, e si parla pertanto di volontà libera, questa volontà non può essere considerata come esterna, come proveniente da fuori. Se così fosse, e il volere venisse dall’esterno, la volontà non potrebbe pensarsi come volontà libera, ma sempre e soltanto dipendente da questo fuori. Dunque, tra il contenuto e la forma deve esserci comunione, identità – auto-coscienza. Questa comunione, dice Hegel (Enciclopedia, Spirito oggettivo §552), si riscontra nel seno stesso della religione cristiana, nella quale non è l’elemento naturale a costituire il contenuto di Dio, o a entrare in tale contenuto come suo momento: il contenuto è Dio, saputo in spirito e verità.

Nella religione cristiana è Dio che si fa uomo. È Dio stesso che si conosce come uomo – o è l’uomo che, in Gesù, si conosce come Dio stesso, che si fa Universale Concreto (concreto, cioè cresciuto insieme, unito nello stesso). Il Finito – l’uomo empirico – è unito (è la stessa identica cosa) dell’Infinito – l’uomo logico. In Gesù la libertà – ovvero l’essere sciolto da ogni dipendenza, l’assoluto, l’infinito, la sovranità – proviene da sé stesso, perché è egli stesso a essere Dio.

Non è un oggetto esterno, un feticcio, un’immagine, un totem a dettare la legge, a dire cosa è vero e giusto. La verità sgorga direttamente dal cuore – la verità è la verità del cuore, e al centro del cuore c’è Dio.

L’uomo può ora specchiarsi in Gesù, in quanto Gesù è Dio che si fa uomo, vive, si fa esperienza. Ognuno può esperire l’assoluto, specchiarsi in Gesù e apprendere di essere anche lui figlio di Dio, di avere un cuore e di avere al centro del cuore questa verità, la verità di essere, come tutti gli altri uomini, figlio di Dio. Non ha bisogno di ricevere dal di fuori, dal padre, dalla natura, delle condizioni economiche e sociali esterne, dal feudatario, dalla corporazione, dalla famiglia, dal re, dal principe, eccetera; non ha bisogno che un potere esterno gli dica chi è veramente e quale è il suo rapporto rispetto agli altri, in quale struttura è collocato e può agire.

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Eugenio Pavarani: Le parole del neoliberalismo

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Le parole del neoliberalismo

di Eugenio Pavarani

Presentazione del libro “Lessico del neoliberalismo. Le parole del nemico”, Rogas Edizioni, 2024

Neoliberism.jpgPrima di entrare nel merito dei contenuti del libro, devo dare una indicazione preliminare, importante quando si presenta un libro. I libri si possono dividere in due categorie: i Libri (con la elle maiuscola) e i libroidi (con la elle minuscola). Quindi comincio col dire che questo è un Libro. La classificazione non è mia. È di Carlo Galli. Mi è piaciuta e la faccio mia.

Galli però non ha dato una definizione di libro e di libroide. Io la vedo così: leggere un Libro è come indossare un paio di occhiali speciali che ti fanno vedere qualcosa che senza quegli occhiali non avresti visto, vedi qualcosa di nuovo e di interessante, qualcosa che ti arricchisce. Un libroide invece non ti fa vedere niente di nuovo, niente che non fosse già visibile e già visto. Ricordo la recensione che fece un autorevole barone accademico che voleva stroncare una monografia di un giovane ricercatore. In realtà voleva stroncare i maestri di quel ricercatore e la loro scuola: voleva colpire il ricercatore per colpire i suoi maestri. Disse il barone: il libro propone idee nuove e idee interessanti; purtroppo però le idee interessanti non sono nuove e le idee nuove non sono interessanti. Parole come pietre: libroide colpito e affondato.

Detto che “Lessico del neoliberalismo” è un Libro e non è un libroide, devo evidenziare cosa si vede di nuovo e di interessante attraverso questo libro; cosa consentono di vedere gli occhiali speciali offerti dal libro. Per arrivarci devo fare una premessa.

Un anno fa Marco Baldassari e Marco Adorni mi parlarono del progetto editoriale che poi ha dato vita a questo libro. Il progetto di cui mi parlarono consisteva nell’elaborazione di un glossario del neoliberalismo. Mi invitarono a portare un contributo e mi affidarono il lemma “concorrenza”. Mi è parsa subito un’idea originale e molto interessante.

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Carlo Lucchesi: Contro la guerra. Come si può alzare il livello della lotta?

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Contro la guerra. Come si può alzare il livello della lotta?

di Carlo Lucchesi

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news.pngPerché ci stiamo avvicinando al baratro di un conflitto senza ritorno nell’indifferenza generale? Perché la guerra in Ucraina e il massacro in Palestina hanno prodotto reazioni neppure minimamente paragonabili a quelle che abbiamo visto in altre simili circostanze? Perché il movimento per la pace vive di rare e piccole manifestazioni e non scuote le coscienze?

Questi interrogativi non sono all’ordine del giorno di alcuna forza politica, di alcun sindacato, di alcuna istituzione, di alcuna chiesa, sfiorano appena il mondo degli intellettuali, sembrano poco presenti persino tra le forze che meritoriamente quanto stentatamente provano a fare qualcosa.

Eppure è solo dalla risposta a queste domande che può nascere una lotta che abbia qualche possibilità di successo.

In prima battuta viene da pensare che l’assenza di partecipazione, emotiva oltre che politica, a eventi tanto tragici sia dovuta in gran parte al fatto che nel sentire comune vengono viste come guerre a noi vicine, ma non così tanto, che si tratta di due porzioni di mondo che non ci toccano direttamente, che sono destinate a restare in quegli ambiti, che non è facile farsi un’idea precisa di dove stanno le ragioni e dove i torti, perché ognuno dei contendenti almeno una piccola parte di ragione in fondo ce l’ha. E poi, comunque, finiranno là dove sono iniziate, perché nell’era nucleare non è immaginabile una guerra più grande, non è pensabile che ci sia qualcuno così folle da innescare un conflitto che metta a rischio l’intera umanità.

Considerazioni apparentemente ragionevoli come queste erano diffuse anche in un passato non molto lontano quando, però, di fronte a guerre più vicine, come quella nell’ex Jugoslavia, o più lontane, come quella in Iraq, la voglia e la capacità di reagire furono ben diverse. Dunque la risposta va cercata altrove.

Va cercata partendo da una premessa che è la sola che possa dare un senso alla battaglia per la pace contro i costruttori di guerre.

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Il Rovescio: Vale per Monza, vale per Manhattan

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Vale per Monza, vale per Manhattan

di Il Rovescio

Difficilmente un omicidio poteva suscitare una più vasta approvazione sociale di quello attribuito a Luigi Mangione. Analizzando l’impressionante fenomeno di vera e propria acclamazione in corso negli Stati Uniti (decine di migliaia di messaggi di sostegno, magliette, cappellini, spille, canzoni con le parole “deny, defend, depose” e “Free Mangione”, raccolte di fondi per le spese legali dell’accusato, boicottaggio del McDonald’s in cui è stato arrestato…), un consulente del “Network Contagion Resarch Institute” ha scritto queste righe gustose: «L’uccisione di Thompson viene accolta come una specie di segnale d’inizio di una più ampia guerra di classe».

Per comprendere un tale fenomeno bisogna capire innanzitutto chi era l’ammazzato.

Solo l’anno scorso, UnitedHealthcare, di cui Brian Thompson era l’amministratore delegato, ha fatturato 22 miliardi di dollari di profitti fatti letteralmente sulla pelle di milioni di persone. I maggiori azionisti di UnitedHealth sono il gigante della gestione patrimoniale Vanguard, che detiene una quota del 9%, seguito da BlackRock (8%) e Fidelity (5,2%). Le tre formule standard – rese celebri dai proiettili con cui Thompson è stato tirato giù dalle spese – attraverso le quali la società nega la copertura assicurativa per le cure mediche non valgono soltanto per interventi chirurgici particolarmente costosi.

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Fulvio Grimaldi: Finalmente uno Stato Islamico come si deve. Il nostro agente a Damasco

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Finalmente uno Stato Islamico come si deve. Il nostro agente a Damasco

di Fulvio Grimaldi

La nomina del Segretario del Consiglio dei Ministri, su decisione del capo terrorista Ahmed Sharaa (già al Joliani), è avvenuta nell’Hotel Quattro Stagioni di proprietà del Qatar e in presenza delle di esso autorità diplomatiche festanti.

La Repubblica Araba Siriana aveva un sistema presidenziale che non prevedeva un Primo Ministro, titolo ora assegnato a Mohammed al Bashir. Lo vedete qui all’ombra della nuova bandiera siriana. Che è quella che i francesi imposero alla nazione (che a suo tempo comprendeva Libano, Giordania, Siria e Palestina) quando era una propria colonia.

Mohammed al Bashir, alto dirigente della Fratellanza Musulmana, di cui sono membri il Qatar e la Turchia e che dalla sua fondazione è collegata al governo e ai Servizi britannici e, dunque, a quelli USA, condivideva con Al Jolani la direzione dell’organizzazione jihadista Hayat Tahrir al Sham (HTS) fin da quando, nel 2011, si chiamava Al Qaida e poi Al Nusra e, in altre aree, ISIS-Stato Islamico. La sua prima apparizione pubblica è avvenuta in una presentazione allestita dal MI6, il Servizio Segreto Regno Unito

Da autoproclamato governatore della provincia siriana di Idlib, strappata al controllo di Damasco grazie al soccorso dell’esercito turco, al Bashir aveva imposto ai 3 milioni di abitanti della provincia una dittatura jihadista. Si è trattato di un regime terrorista, brutale, vessatorio e che ha espropriato la popolazione e le sue autorità elette di ogni diritto e potere. Tutte le attività economiche della provincia venivano sequestrata dagli occupanti e gestite da miliziani jihadisti e soldati neo-ottomani nell’interesse loro e della Turchia.

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Andrea Di Turi: Tutti i dati dell’Atlante che «stana» le ricchezze offshore

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Tutti i dati dell’Atlante che «stana» le ricchezze offshore

di Andrea Di Turi

Aggiornati i dati dell’Atlante che monitora flussi finanziari e patrimoni che sfuggono al fisco. Un’iniziativa che ha raccolto interesse ad alti livelli

Come stanno nel mondo l’evasione, l’elusione fiscale, la ricchezza nascosta al fisco, che impoveriscono gli Stati e fanno i ricchi sempre più ricchi? Purtroppo bene. Almeno a giudicare dai dati di “Atlas of the Offshore World”, l’Atlante dei capitali offshore.

 

Tutte le strade dell’offshore

L’Atlante del mondo offshore è l’iniziativa promossa congiuntamente circa un anno fa da Eu Tax Observatory, l’istituto di ricerca diretto dall’economista francese Gabriel Zucman (una delle voci più ascoltate al mondo in fatto di rapporti tra tassazione e disuguaglianze), con lo Skatteforsk-Centre for Tax Research dell’università norvegese NMBU.

L’Atlante è composto da quattro insiemi di dati. Il primo monitora a livello globale il fenomeno cosiddetto del profit shifting (spostamento degli utili). È il modo in cui le multinazionali pongono in essere l’“ottimizzazione fiscale”, per usare il loro gergo. Cioè attraverso cui cercano di pagare meno tasse possibile, giostrando utili e perdite fra le loro sedi distribuite ai quattro angoli del pianeta in base alla convenienza dei regimi fiscali. Il secondo riguarda la ricchezza finanziaria offshore, cioè quella “occultata” nei paradisi fiscali.

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Giuseppe Spedicato: Lo schiaffo

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Lo schiaffo

recensione di Giuseppe Spedicato

Rita El Khayat: Lo schiaffo. La memoria di una donna araba tra colonialismo e resistenza Mediter Italia Edizioni, Palermo, 2024

Queste mie riflessioni non vogliono essere una recensione dell’ultimo lavoro della El Khayat – Lo schiaffo – ma il mettere in evidenza alcuni concetti espressi nel libro, che aiutano a comprendere pagine di storia passata che continuano a creare il presente, ma soprattutto farla conoscere meglio al pubblico italiano. Far conoscere una grande intellettuale, versatile e molto coraggiosa, che pensa e scrive da un’altra cultura, da un altro punto di vista. Rita El Khayat non è una donna che vive e lavora negli Stati Uniti o in Europa e da lì pensa e scrive. Lei pensa, vive e lavora in un paese del Nord Africa, il Marocco.

La El Khayat con questo nuovo lavoro cerca far comprendere il colonialismo in Marocco, e lo fa partendo da una sua esperienza personale, quando era una piccola scolara, era l’unica araba della classe. Un giorno viene tirata fuori da una fila di bambini e viene presa a schiaffi dall’insegnante. Non aveva fatto nulla, “ero un’araba o, meglio, ero solo un’araba che poteva essere ingiustamente punita, senza che nessuno battesse ciglio o senza il rischio di provocare una ribellione, per quello che, peraltro non avevo commesso. Potevo solo piangere”. Era stata punita lei al posto di chi era agitato e urlante. L’insegnante voleva calmare la classe.

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